«La testa del vicino sbuca da dietro la siepe e mi chiede chi sono e cosa ci faccio lì… si scusa, mi spiega che dopo tutto quello che è successo è normale che siamo diventati un po’ sospettosi con gli estranei». Tutto quello che non ricordo (Iperborea) di Jonas Hassen Khemiri ci porta subito, fin dalle prime righe, nel cuore del problema. Si chiama sospetto, paura dell’altro, razzismo. Un tarlo nascosto dentro villette disseminate di allarmi, dentro un linguaggio educato che si rivolge all’altro in guanti bianchi per evitare ogni contatto, dietro una normalità razionale e ordinata. («La Svezia è l’unico posto al mondo dove anche i neonati imparano a evitare lo sguardo dell’altro»).
In questo romanzo lo scrittore svedese svela questa violenza invisibile in modo magistrale raccontando una città ideale, all’apparenza democratica e cosmopolita, come Stoccolma. E ne indaga gli effetti in modo sottile e profondo, spingendo il lettore a interrogarsi sulla vicenda di Samuel, giovane immigrato di seconda generazione, all’apparenza perfettamente integrato, che lavora all’ufficio immigrazione (come in passato il suo autore) ed è innamorato di Laide, attivista per i diritti umani. Più grande di lui, forse un po’ rigida, ha scelto di occuparsi di donne abusate, lo fa in modo militante, tenendo ossessivamente il conto degli stupri. Anche l’amica di Samuel, la Pantera, indossa una maschera dicendo di essere un’artista underground. Più scoperto è invece Vandad, che ha sperimentato il carcere, e ne porta i segni. È attraverso le loro voci, a cui se ne aggiungono via via altre, che veniamo a sapere che Samuel è morto. Un incidente? O «come certi dicono, era depresso e lo progettava da tempo»? Khemiri non ci dà la soluzione, ma ne tratteggia un ritratto sfaccettato e complesso attraverso una straordinaria polifonia di voci, dalle quali emerge la sensibilità, “l’innocenza” contagiosa di questo ragazzo che s’interroga sull’amore.