Dietro ai resort che attirano vacanzieri da tutto il mondo si cela una realtà quotidiana fatta di miseria, droga, gangster e integralismo religioso. Così, i meravigliosi atolli dell’Oceano indiano diventano un Paese dal quale i maldiviani vogliono fuggire

Parigi, a Bruxelles, a Tunisi, parli dei jihadisti con i musulmani e tutti ti rispondono mortificati, quasi a volersi scusare, ti dicono: Sono fuori di testa. Qui ti dicono: Sono degli eroi. Le Maldive sono il paese con il più alto numero procapite al mondo di foreign fighters. Ma in fondo chi di noi, intanto, sa che sono un paese musulmano? All’aeroporto, la sala arrivi è in realtà un’altra sala partenze: si atterra, e ci si imbarca subito per una delle isole riservate agli stranieri. Per noi le Maldive sono un arcipelago di 1192 isole: ma per i maldiviani, sono un’isola sola: Male. La capitale. Qui tutto è concentrato nei suoi 5,8 chilometri quadrati. Uffici, ospedali, negozi. Scuole. Banche. E circa 250mila persone: Male è una delle città più sovraffollate del pianeta. Si vive pressati in queste case minuscole e scalcinate, buie, umide, sature di caldo e sudore, in dieci in due stanze: e cioè si vive per strada, perché poi, in spazi così ristretti, diventa tutto un inferno – le Maldive sono il paese con il più alto tasso di divorzi. E dal momento che l’Islam proibisce l’alcol, sono anche il paese con uno dei più alti tassi di eroinomani: il 44 percento degli abitanti ne ha uno in casa. «Perché se non puoi cambiare la tua vita», mi dice un ragazzo, «non ti resta che dimenticarla». Ha 31 anni, si chiama Kinan. Ed è uno dei nomi più noti, e temuti, della criminalità di Male. Il principale datore di lavoro delle Maldive. Perché nei resort, in realtà, sono tutti stranieri: non solo i clienti. «I camerieri, i cuochi, ormai vengono tutti dal Bangladesh, sono tutti immigrati per cui cento dollari al mese sono una fortuna», dice. «Mentre per i ruoli a contatto con i turisti, vogliono solo occidentali. Solo bianchi». I 3,5 miliardi di dollari l’anno del turismo finiscono in larga parte a cinque, sei affaristi con solide amicizie in parlamento. Agli altri, non restano che gli spiccioli. Mance, letteralmente. Male è spartita tra una trentina di gang: ognuna legata a un certo deputato, a sua volta legato a un certo imprenditore. «Siamo al loro servizio», dice. «Per qualsiasi cosa. Per un volantinaggio come per un’aggressione. E con tanto di tariffario: è un mestiere come gli altri». 1200 dollari per spaccare una vetrina. 600 per bruciare un’auto. In un sondaggio commissionato dal governo, il 43 percento degli abitanti di Male ha detto di non sentirsi sicuro neppure a casa propria. Per quelli come Kinan, la Siria è una specie di seconda opportunità. Una forma di redenzione. «Qui accoltelli fino a quando non vieni accoltellato», dice. «Nient’altro. E per una guerra che non è la tua. In Siria, se non altro, sarei ucciso per una ragione migliore». Mohamed ha 20 anni, e studia alla facoltà di Sharia. Sta preparando un esame: e la partenza per la Siria. «L’Islam è giustizia», dice. «Giustizia come è intesa ovunque. Come uguaglianza di diritti e di opportunità». Le Maldive potrebbero essere come Dubai, dice. Come la Svizzera. E invece il 5 percento della popolazione possiede il 95 percento della ricchezza. «E invece è tutto un favore. Se ti ammali, bussi alla porta del presidente, e ti pagano le cure all’estero. Che poi è il motivo per cui nessuno si ribella. Perché ognuno risolve i suoi problemi così. Pensando solo a se stesso», dice. «Non siamo cittadini. Siamo mendicanti». Il suo modello, dopo Maometto, è Malcolm X. E la sua scelta non è una scelta clandestina. Si entra in Siria dalla Turchia, e il viaggio costa 3mila dollari: li ha chiesti al padre. I jihadisti predicano il ritorno al vero Islam. All’Islam dei tempi di Maometto. Ma ai tempi di Maometto le Maldive, in realtà, erano buddiste […].

Il reportage di Francesca Borri prosegue su Left in edicola


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