Cariche della polizia e feriti fra i cittadini catalani che pacificamente volevano votare sì al referendum per l’indipendenza della Catalogna. Le foto mostrano un uso deliberato della violenza che ricorda gli anni del franchismo. Comunque la si pensi riguardo alle istanze autonomiste degli indipendentisti catalani e al loro ricorso al referendum come strumento di rottura dal basso oggi non si può che essere dalla loro parte.
Le cronache dicono anche di arresti di attivisti ( 460 in serata). alcuni perché hanno cercato di fermare gli ufficiali intervenuti per chiudere alcune struttura dove cittadini catalani semplicemente volevano votare al referendum non riconosciuto dal governo centrale.
Il sindaco di Barcellona Ada Colau chiede la dimissioni del primo ministro Mariano Rajòy: “Inaccettabile la violenza su personeche manifestavano in modo pacifico”.
La settimana scorsa così il collega e ricercatore Steven Forti ricostruiva su Left il quadro della situazione:
Anche se i catalani riusciranno a votare il primo ottobre, il referendum non avrà nessun valore legale e non otterrà nessun riconoscimento internazionale. La Ue lo ha ripetuto più volte: “è una questione interna al Regno di Spagna”. L’unico appoggio che ha ottenuto l’indipendentismo è quello di Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, rinchiuso da anni nell’ambasciata dell’Equador a Londra.
Quella di domenica 1 ottobre sarà molto probabilmente una nuova grande mobilitazione dell’indipendentismo catalano. Una dimostrazione di forza. A Madrid e al mondo. Come nelle molte Diadas che hanno invaso pacificamente le strade di Barcellona l’11 settembre degli ultimi sei anni. L’obiettivo del governo catalano è quello di portare a votare più gente rispetto al macrosondaggio di tre anni fa: il 9 novembre del 2014 furono 2,3 milioni i catalani che parteciparono (il 37% degli aventi diritto), l’80% dei quali dissero sì alla creazione di un nuovo Stato. Ma con che fine? Per dichiarare unilateralmente un’indipendenza non riconosciuta da nessuno? Difficile. E controproducente per gli stessi indipendentisti. Per avere più forza nelle trattative che si dovrebbero aprire il day after? Probabilmente. Per mantenersi al potere nella ricca regione nord-orientale della Spagna? C’è chi sostiene che tutto, o quasi, è fatto dal governo catalano per questo.
C’è un fattore però che potrebbe modificare le cose e distorcere la lettura dell’1 ottobre: le decisioni che prenderà il governo del Partito Popolare (PP). Il governo catalano ha scommesso tutto o quasi sulla logica azione-reazione e sulla risposta della società catalana alle possibili inabilitazioni dei politici catalani o alla requisizione delle urne da parte del governo spagnolo. L’1 ottobre, in questo caso, si convertirebbe soprattutto in una manifestazione contro il governo del PP. Ancora una volta, sarà chiave capire chi vincerà la battaglia della “narrazione”.
Facciamo però un passo indietro. Come si è arrivati fino a qui? Due sono le cause principali. In primo luogo, il modo in cui si è gestito il processo di riforma dello Statuto di Autonomia catalano tra il 2003 e il 2006 e la dura campagna lanciata dal PP di Rajoy, allora all’opposizione, che portò nel 2010 alla sentenza della Corte Costituzionale che ne annullava 14 articoli. È lí che si ha un primo forte segnale di frustrazione da parte della società catalana. In secondo luogo, le conseguenze della crisi economica che ha colpito la Spagna dal 2010: una crisi che si è trasformata rapidamente in una crisi sociale, politica, istituzionale, territoriale e culturale. È il sistema spagnolo nato dalla transizione alla democrazia di fine anni Settanta che è andato in tilt. Non è un caso che la rivendicazione indipendentista diventi di massa nell’autunno del 2012, poco più di un anno dopo la nascita del movimento degli indignados che occupano le piazze di tutto il paese al grido di Democracia Real Ya.
È questo mix di frustrazione e rabbia che spiega in buona parte la nascita della rivendicazione indipendentista catalana. Nel 2006 si considerava indipendentista appena il 15% dei catalani, ora sono almeno il 40%. Frustrazione e rabbia, fomentate da un’evidente assenza di dialogo tra i due governi negli ultimi cinque anni, che sono state gestite in modo diverso dalle élites politiche di Madrid e Barcellona. A Madrid il PP approfitta della crisi per applicare politiche di ricentralizzazione giustificandole con le misure di austerity. Chi ne paga le conseguenze sono tutti i cittadini, ma anche Comuni e Regioni. A Barcellona all’inizio si calca l’acceleratore allo stesso modo: duri tagli al Welfare State, fedeli ai dettami merkeliani più rigidi, e politiche business friendly. Tutto cambia nel 2012. Il governo catalano, saldamente in mano alla destra autonomista di Convergència i Unió, cerca di calvalcare l’onda sovranista per non rimanere sommerso. Nel giugno del 2011 avevano avuto il primo avviso: gli indignados avevano circondato il Parlamento regionale per impedire la votazione delle misure di austerity più dure dalla fine del franchismo. L’allora presidente regionale, Artur Mas, era dovuto entrare in Parlamento in elicottero. Ma è un cambio di facciata perché le politiche applicate da Convergència e dai seguenti governi appoggiati dalla sinistra indipendentista continuano ad essere sempre le stesse.
La differenza è che si scarica la responsabilità sul governo di Madrid e si vende l’idea che l’indipendenza è la panacea di tutti i mali. “Un’utopia disponibile”, seconda la definizione della sociologa Marina Subirats, che fa presa su molte persone.
È qui il nocciolo della questione e l’inizio di quel che si è chiamato Procés sobiranista (processo sovranista). La sua caratteristica principale è l’eterogeneità dove ha un peso preponderante la rivendicazione democratica, ma dove entrano in scena, poco a poco, anche elementi identitari e chiaramente di destra. Come catalogare uno slogan come “Madrid ci deruba” che ricorda il Bossi dei tempi d’oro? Come giustificare l’attacco sistematico sui mass media o sui social network a chi in Catalogna si dimostra critico con l’indipendentismo e che viene tacciato di “traditore”, “spagnolista” o, direttamente, “fascista”? Come definire la rilettura nazionalista della storia fino ad affermare che la Catalogna è un paese occupato da 300 anni? O ancora: come spiegare la mancanza di rispetto delle regole democratiche nell’approvazione della Legge del Referendum di autodeterminazione, senza permetterne la discussione ai partiti dell’opposizione? O l’inclusione nella Legge di Transitorietà Giuridica di un articolo che fa dipendere la magistratura dall’esecutivo nella futura Catalogna indipendente? Cose più tipiche dell’Ungheria di Orban che di un territorio che giustifica la sua indipendenza per la “demofobia” del governo spagnolo.
Certamente l’indipendentismo catalano non ha nulla a che vedere con la Lega Nord, ma alcuni settori al suo interno, con una sempre maggiore visibilità mediatica, si sentirebbero a proprio agio nel partito di Salvini, nel Front National di Le Pen o con Trump. E questa è anche la maggiore contraddizione della sinistra indipendentista catalana, sia quella socialdemocratica di Esquerra Republicana de Catalunya sia quella anticapitalista della Candidatura d’Unitat Popular, che appoggiano un governo in cui l’egemonia è in mano alla destra catalana, rappresentata dal presidente Carles Puigdemont, il successore di Artur Mas.
È indubbio che la CUP, partito assembleare e antisistema, vede nell’indipendenza il grimaldello che permette di scardinare il sistema per creare una Repubblica catalana socialista. Il che già di per sé è questionabile: perché non farlo insieme agli andalusi, i galiziani o i castigliani che lottano per cambiare tutta la Spagna? Ma se per di più ci si lega alla destra neoliberista sotto l’ombrello ambiguo e di pessimi ricordi dell’unità nazionale si fa un pessimo favore alle rivendicazioni di quello che un tempo si sarebbe chiamato proletariato. Ci si è fermati alle lotte terzomondiste di mezzo secolo fa, senza aver capito la teoria della dipendenza di Gunder Frank, tanto cara a Che Guevara, o le considerazioni di Anton Pannekoek, scritte nell’autunno del 1914, sui rischi drammatici dell’union sacrée. E senza aver capito che, piaccia o no, ci si trova nell’Europa del villaggio globale. Che cosa cambierebbe in una Catalogna indipendente dove l’egemonia rimarrebbe in mano alla destra che, detto en passant, fino al 2012 ha sempre governato insieme al PP dell’ora odiatissimo Mariano Rajoy?
L’immagine che l’indipendentismo vuole trasmettere è che la società catalana è un blocco monolitico, ma non è così. La società catalana, ormai molto divisa sulla questione dell’indipendenza, è estremamente eterogenea. Alle elezioni regionali del 2015 i partiti indipendentisti hanno raccolto il 47,8% dei voti, per quanto, grazie ad una legge che premia le circoscrizioni meno abitate, abbiano una maggioranza di seggi nel Parlamento di Barcellona. Si tratta di un numero importante, ma non sufficiente per dichiarare unilateralmente l’indipendenza.
È quel che non si stancano di ripetere Pablo Iglesias e Ada Colau. Sia il leader di Podemos che la sindaca di Barcellona condividono l’analisi di fondo di parte dell’indipententismo di sinistra: il Régimen del ’78, ossia il sistema spagnolo nato dalla transizione post-franchista, è arrivato al capolinea ed è necessario costruire un nuovo sistema su nuove basi. Ma non ne condividono né la limitazione alla sola Catalogna, né la via unilaterale, né l’alleanza “tattica” con la destra catalana. Per Podemos e per Barcelona en Comú la soluzione è quella di trasformare la Spagna in uno Stato plurinazionale, difendendo per la Catalogna un referendum di autodeterminazione accordato, legale e con il riconoscimiento internazionale, senza rischiare di fratturare la società catalana con accelerazioni che dimostrano una debolezza di fondo del movimento indipendentista. Ossia, difesa a spada tratta del diritto di decidere. Però non solo sulla questione nazionale. Su tutto: dalla sanità all’educazione, dalle politiche di accoglienza dei migranti all’ambiente, dalla partecipazione della cittadinanza alla lotta alla corruzione… E con un’idea di fondo che contrasta il discorso indipendentista: la Spagna sì che è riformabile, a patto che tutti insieme si lotti per cambiare il sistema, cominciando da togliere il governo al PP.
È una strada difficile, ovviamente, rispetto all’utopia dell’indipendenza che trasformerebbe la Catalogna dall’oggi al domani nel paese del Bengodi. Ma sono spesso le strade più difficili quelle che permettono di costruire su basi solide un futuro dove il protagonismo, almeno per chi crede nei valori fondamentali della sinistra, deve averlo la giustizia sociale e non l’identità nazionale. È questa la sfida che si trova di fronte la sinistra spagnola e catalana.