Il professor Luciano Canfora presenta La schiavitù del capitale (Il Mulino) alla Libreria Feltrinelli di Udine il 23 ottobre, nell’ambito del festival Mimesis
«Il concetto di “internazionale” è molto bello e venusto, si potrebbe dire con un sussulto estetico. Ma è attuato solo dal grande capitale finanziario. L’unico internazionalismo possibile oggi è quello che un clic di computer rovina un Paese e ne innalza un altro, fa speculazioni in Borsa, lancia lo spread da Singapore a Toronto passando per Roma, Milano, Francoforte», dice il filologo e storico Luciano Canfora (che ha di recente ha pubblicato La schiavitù del capitale, Il Mulino). Il capitale è una bestia gigantesca diceva Marx, è «lo stregone». «Però si illudeva quando scriveva che suscita forze che non sa dominare. Ci riesce benissimo, mi pare. Ricorre alla forza militare per dominarle. E ha i governi ai propri piedi. Anche quando fanno retorica. Il governo italiano – continua Canfora – ne è un campione, ma vende le armi in tutto il mondo provocando guerre. Il che fa un tantino schifo. Però dirlo è faticoso e lo fanno in pochi».
Quando Marx lanciò il famoso “Proletari di tutto il mondo unitevi”, a quali Paesi pensava?
Si potrebbe immaginare, data la sua esperienza di vita, che pensasse alla Germania più progredita, alla Francia settentrionale, all’Inghilterra, forse a un pezzettino del nord Italia, al Belgio, insomma ai Paesi più industrializzati, alcuni perfino colonialisti, dove c’era una classe operaia piuttosto omogenea. Così un collegamento internazionale era pensabile. Ma le due volte in cui si tentò di avviarlo ci fu un fallimento. La prima Internazionale fondata da Marx si esaurì in pochi anni. La seconda fu un prodotto tardivo, sembrava più solido, ma bastò la guerra del 1914 per farla andare in pezzi. La terza, quella più aggressiva e militare, fu sciolta nel maggio del 1943 da Stalin: nella guerra mondiale era stato alleato di due Paesi capitalisti come gli Usa e l’Inghilterra, e avere al contempo una organizzazione internazionale volta a fare una rivoluzione comunista sia in Inghilterra che in Nord America era una contraddizione in termini. Ne prese atto e la sciolse. D’altra parte anche un grande pensatore di sinistra come Antonio Gramsci, pian pianino, arrivò a pensare che fosse necessario considerare i fattori nazionali, studiare specificamente la situazione dell’Italia, con il problema dei cattolici, della Chiesa, dove c’erano i contadini; una situazione completamente diversa da quella della Francia, della Svizzera o del Benelux o dell’Argentina. Contro l’Internazionale si schierarono le forze più diverse, compresi i fascismi che si fingevano socialisteggianti mentre ponevano l’accento sull’aspetto nazionale. Lo stesso Togliatti lanciò la formula: «Le vie nazionali al socialismo». Questa è la storia che abbiamo alle spalle, quanto al presente… del segretario del Pd Renzi non parliamo nemmeno perché non appartiene alla cultura della sinistra.
Un problema che si ripropone oggi è quello dei nazionalismi mentre si riaffacciano istanze indipendentiste, come in Catalogna.
Mi permetta una considerazione: quando i Paesi baschi si mettevano in luce, con una lotta anche terroristica per l’indipendenza dalla Spagna, tutta la sinistra di vario colore, specie se estrema, era con loro. Ricordo che qui all’università i corridoi erano tappezzati di scritte per Euskadi (Paesi baschi in basco). Quei poveri giovanotti insipienti e ignoranti pensavano che, finito il franchismo, la questione basca fosse ancora aperta. Anche allora si diceva che la parte ricca della Spagna se ne voleva andare per i fatti propri, per egoismo. Quando soggiornai a lungo in Spagna nel 2008 in molti mi dicevano che i Paesi baschi non volevano condividere il loro star bene con altri; la stessa cosa viene detta oggi della Catalogna. I fattori storici comunque vanno considerati: entrambe quelle regioni, del Nord e del Sud della Spagna, hanno patito il franchismo, si sono ribellate, hanno subito terribili repressioni, hanno una memoria storica ferita. Il continuismo incarnato da Mariano Rajòy è evidente. Dall’altra parte anche i socialisti sono divisi e Sanchez alle elezioni è andato maluccio. Il premier Rajòy ha un governo di minoranza, non sarà come don Adolfo Suárez González franchista diventato primo ministro sotto Juan Carlos, ma conservatore certamente sì, ed ha il suo puntello nella monarchia, che in Spagna è tutto meno che una garanzia di democrazia. Allora il fatto che la Catalogna dica basta, dispiace a quel genio di Giorgia Meloni e quindi piace a me.
Evoca gli anni Trenta il pugno duro di Rajòy sui catalani che pacificamente cercavano di votare, seppur a un referendum non riconosciuto dal governo centrale. Di chi è la vera responsabilità di questa situazione?
Non siamo più nel 1936-39. Ci sono anche altre questioni da considerare. La più macroscopica è questa ridicola Unione europea, che è solo una unione monetaria, punto e basta. È uno strano agglomerato di governi nazionali. Non esiste una Costituzione europea che si possa dire veramente tale. C’è una Carta comune in cui non si parla dei popoli, si parla dei governi che ovviamente tutelano la propria unità nazionale. Ma i popoli, indipendentemente dagli Stati nazionali, hanno il diritto di far valere il proprio punto di vista all’interno di una unione di tutti i popoli europei. Gli Stati nazionali sono una formazione tardiva, che è nata nella storia e che finisce nella storia, c’è poco da fare. La Francia ci è arrivata prima, l’Italia e la Germania tardissimo. L’Inghilterra, che dà la lezione a tutti, ha il problema della Scozia e ha perfino una colonia interna, l’Irlanda del Nord. Si continua a parlare di intangibili Stati nazionali ma, torno a dire, sono un prodotto storico che ha un inizio e, piaccia o meno, una fine.
Ci interroghiamo su come questa sinistra dispersa possa avere rappresentanza in Europa, quando, come lei dice bene, la Ue è un’unione di egoismi, non fa circolare le persone, tanto meno i migranti, ma solo le merci.
È molto peggio. La Ue è una costruzione aberrante e ogni volta che ha un problema lo risolve con le botte come è accaduto nel caso della Grecia. È sotto gli occhi di tutti. Facciamo una piccola parentesi storica. La Catalogna apparteneva al Regno di Francia al tempo del cardinale Mazzarino nel Seicento. Noi italiani ci siamo presi un pezzo di Tirolo ad un certo punto. L’Alsazia è francese o tedesca? Possiamo fare seminari interminabili su questo, probabilmente non è né l’uno né l’altro; è alsaziana con un proprio patois.
Dunque che deve fare la sinistra?
La risposta l’ha già data Paolo Mieli.
Prego?
Inaspettatamente sul Corsera ha scritto che la sinistra può vincere solo se è veramente tale, più va a sinistra, più vince. Vedete la Linke in Germania, lo “spirito” spira ovunque.
In questo quadro come legge la rimonta di Corbyn?
Se la sinistra fa il proprio mestiere ha un insediamento sociale dignitoso. Naturalmente non sarà mai la maggioranza assoluta dei votanti. Non lo è mai stata in nessun Paese. Quando Lenin fece la Costituente guardò i numeri e la sciolse; l’Urss poi è durata 70 anni. Noi dobbiamo sapere che la sinistra è un pezzo della società che pesa nell’equilibrio delle forze, se fa veramente il proprio mestiere, se svolge il proprio compito facendo da contrappeso. La democrazia non è un ballo in maschera, è un conflitto, bisogna avere un ruolo preciso altrimenti non si conta nulla.
Possiamo dire dunque che il governo Renzi e quello Gentiloni non hanno praticamente nulla di sinistra, pensiamo alle politiche sui migranti e al codice Minniti.
È talmente patetica la facies del governo italiano che è anche inutile parlarne. È un governo che è stato commissariato da quello precedente, che ha ordinato come dovesse essere fatto. Il premier Gentiloni fa le stesse cose del precedente, senza la violenza verbale di Renzi, ma la pappa è sempre la stessa. Il ministro Minniti è andato a trovare Giorgia Meloni al festival dei Fratelli d’Italia e ha citato Italo Balbo. È stato un abbrassons nous colossale, i giornali non l’hanno detto. La sua strada per farsi apprezzare è stata citare Mussolini e Balbo. Poi si è giustificato dicendo: ma io vengo da una famiglia militare…