Chi è un artista se non colui che legge il mondo attraverso il tempo? Che usa le informazioni del passato per indicare a tutti cosa potrà succedere in un futuro anche assai prossimo? Così, in quella distrazioni in cui gli altri si abituano a vivere, in quel non guardare oltre il palmo del proprio naso per troppe contingenze, l’artista coraggioso punta il dito verso la luna e tutti la vedono infine nitidamente. Andrea Segre è un grande artista, perché da artista sa comporre delle immagini belle, non piatte, descrittive, didascaliche, facili, ma utili ad un racconto che vuole mostrare ciò che gli altri non vedono o non vogliono vedere.
Ne L’ordine delle cose mette il dito nella piaga e racconta il nostro legame inesorabile con la Libia, mostrandone cause e conseguenze, aberrazioni ed ingiustizie, senza possibilità di replica. I fatti stanno così e sta ad ognuno decidere di misurare il dramma umano che da tutto ciò scaturisce.
E’ un film che responsabilizza in un certo senso. Ed è per questo che molti scelgono di deresponsabilizzarsi, in un’epoca dove fare arte civile inizia a dare un po’ fastidio. E’ un’opera talmente scomoda che è uscita in poche sale nonostante le ottime critiche. Perché dei flussi migratori meno se ne parla, meglio è per tutti.
Il film racconta il conflitto interno di un alto funzionario della polizia di frontiera, delegato dallo Stato a mettere ordine in Libia e ridurre gli sbarchi. Questo perché lo stato possa dunque dire alla stampa che tutto va meglio, che il nemico dell’ordine pubblico è stato bloccato oltre il mare, sufficientemente lontano da non turbare le coscienze.
Ma lui, Corrado, stando dall’altra parte del mare, con quel mondo si deve confrontare e se hai anche un briciolo di anima, devi quantomeno porti la questione di cosa succeda se tu dai in mano degli esseri umani a degli squali. Cioè lo sai benissimo cosa succede, ma se devi fare una operazione politica di quel genere metti in conto il patto con il peggiore dei diavoli. Il film parla del dubbio amletico di qualcuno che ha per missione di facilitare la delega agli squali di regolare il flusso dei migranti.
“Io racconto le conseguenze umane con quest’ordine. Il film dice semplicemente che quest’ordine produce questa tensione. Corrado applica l’ordine da funzionario, lasciarli da un’altra parte. Facendolo fa l’errore di incontrare una donna che lo costringe a incontrare l’essere umano. Mentre se ci pensi bene Minniti lo crea quell’ordine, lo produce. Mettendo un tappo si lasciano delle persone dentro dei luoghi di merda a disposizione dei mercati di schiavi. Detto ciò mi domando se possa entrare in crisi come succede mio personaggio”.
Andrea Segre sa di cosa parla, non semplicemente perché è uno che sa informarsi e sa analizzare la situazione, ma perché da più di dieci anni, da tempi non sospetti, capì che il nodo di tutto è la Libia e lo raccontò benissimo con il documentario Come un uomo sulla terra.
“Nel 2008 raccontammo i centri detenzione, nel 2017 la strategia per riempire quei centri. Fino a che tappiamo, la direzione rimane la stessa, ma è una strategia del tappo con cui non stiamo minimamente risolvendo nulla. Sono 15 anni che chiudiamo le frontiere come tappi, ma i tappi si stappano. Si potrebbe pensare di cambiare, ma bisognerebbe avere un coraggio politico che non esiste più, con qualcuno che abbia una tensione etica, che non è: “Venite in Germania, venite tutti”. Quella fu una operazione mediatica della Merkel, sapendo che nel frattempo aveva dato 6 miliardi a Erdogan per mettere il tappo. In Libia sommando tutte le varie operazioni degli ultimi due anni siamo ormai circa a un miliardo, ma non è certo ancora finita”.
Per anni ha esplorato il terreno del torto subito, del migrante come capro espiatorio dei mali del mondo, che si batte nonostante tutto. Ha raccontato il complesso mondo di chi parte, come in Come un uomo sulla Terra, di chi arriva ed è sfruttato nei campi come in Sangue Verde sulle rivolte a Rosarno, di chi inizia a starci un po’ di più in Italia e combatte pregiudizi più grandi di quanto si possa immaginare, come nel suo meraviglioso Io sono lì. “Non pensavo di fare il regista, ho studiato sociologia e lavorato con la cooperazione. Ma la spinta veniva da questa necessità di conoscenza. Cosa vengono a fare qui? Perché? Allora ho iniziato a viaggiare in direzione contraria, non perché mi interessasse la guardavo di geopolitica internazionale, ma era curiosità umana”.
Osservare dai vari lati il fenomeno dell’immigrazione permette di fare una foto esaustiva delle difficoltà che l’umanità ha a riconoscersi il suo obbligo di essere esseri umani. Andrea Segre ci aveva raccontato ciò tutto attraverso lo sguardo stupito, triste, cocciuto di questa gente, abituandoci a quel suo modo sobrio, misurato e poetico di farci vivere le odissee di questi migliaia di Ulisse. Ma non aveva fatto ancora il passo più complesso, girare la telecamera verso di noi, i costruttori di castelli kafkiani. E’ una operazione difficile, tanto più se si è artisti e non manichei, perché le posizioni nel mondo della migrazioni si confondono, sono apartitiche ormai. “Alla proiezione al Senato, il Capo Ammiraglio della Marina ci ha tenuto a venire, perché sa cosa significhi affidare i respinti alla Guardia Costiera Libica. Perché è una cosa che nei fatti non esiste, l’ abbiamo fondata noi dopo la caduta di Gheddafi, imbarcando i miliziani delle brigate che hanno vinto. Gente senza una carriera militare strutturata. Dopo ogni guerra le brigate vanno sciolte e fatto un vero esercito, perché l’esercito risponde, o dovrebbe rispondere, a delle regole democratiche, le brigate se violentano una donna chi le controlla? Ma forse faceva comodo avere uno Stato senza regole democratiche certe a far da cuscinetto tra noi e i migranti”.
Andrea Segre è uno dei sguardi più lucidi e onesti sul tema delle migrazioni. Per questo ha deciso di fare l’artista e non il politico e per questo vedere L’ordine delle cose, serve più di qualsiasi trattato di Geopolitica per capire che brutta cosa è la politica dei respingimenti.