Nel 1817, duecento anni fa, un’epidemia di colera colpì l’Asia meridionale, l’Africa orientale, il Medio Oriente e l’Europa. Il Vibrio cholerae, il batterio agente infettivo della malattia, si portò via centinaia di migliaia di vite. L’evento si ripeteva ancora una volta, nel mondo. E non c’era nulla da fare. Non c’erano, allora, né il vaccino né una chiara comprensione dei meccanismi di trasmissione della malattia. Nel 1817, duecento anni fa, un’epidemia di colera colpì l’Asia meridionale, l’Africa orientale, il Medio Oriente e l’Europa. Il Vibrio cholerae, il batterio agente infettivo della malattia, si portò via centinaia di migliaia di vite. L’evento si ripeteva ancora una volta, nel mondo. E non c’era nulla da fare. Non c’erano, allora, né il vaccino né una chiara comprensione dei meccanismi di trasmissione della malattia. Ma ora, nel 2017, scrive – anzi, grida – da Seattle, negli Stati Uniti, la pakistana Anita Zaidi, direttrice del Vaccine development, surveillance, and enteric and diarrheal diseases della Bill & Melinda Gates Foundation, nessuno dovrebbe morire di colera. Perché abbiamo il vaccino, sappiamo come si trasmette il Vibrio cholerae e, soprattutto, possiamo interrompere con pochi euro la sua azione malefica. E, invece, il colera continua a uccidere. Ed è ancora endemico non solo nell’Africa sub-sahariana, ma anche in Asia e nei Caraibi. Inaccettabile. In Yemen, per esempio, negli ultimi cinque mesi questa malattia infettiva si è portata via la vita di 2.000 persone e ne ha contaminate 700.000 mila. Più di quanto avesse fatto ad Haiti, nei mesi successivi al terremoto del 2010. Per inciso, nell’isola caraibica da sette anni non si riesce a debellare il resistibile attacco del Vibrio cholerae. Ma non c’è solo lo Yemen, dilaniato da una guerra dimenticata. Né Haiti, il paese forse più povero al mondo. In questo momento il colera interessa la Somalia, con l’attacco più acuto degli ultimi cinque anni, non meno che il Sud Sudan, che dal giorno dell’indipendenza, nel 2011, non ha conosciuto un solo giorno di tregua da parte dell’infezione. La verità è che il colera è tuttora endemico in ben 69 paesi, dove ogni anno uccide 100.000 persone e ne contagia 3 milioni, la gran parte bambini: tutte vittime evitabili. Facilmente evitabili. Basterebbe una soluzione reidratante ingeribile per via orale dal costo di pochi centesimi per ridurre la mortalità da più del 50% a meno dell’1%. Il fatto è, ricorda Anita Zaidi, che questa banale soluzione non riesce a raggiungere decine di migliaia di persone, condannandole così a morte. Dal 2013, poi, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) si è dotata di un ampio stock di vaccini e ne ha distribuiti 13 milioni di dosi. Ma le domande inevase sono ancora, appunto, milioni.  Ma non c’è solo il vaccino. E neppure solo la soluzione reidratante. Abbiamo una serie di trattamenti possibili, sappiamo dove ci sarà la prossima epidemia – lungo un fiume, in un estuario, lungo una costa dove le acque, contaminate da feci, vengono utilizzate per usi domestici: per bere o lavarsi. Eppure, per debellare del tutto il colera, basterebbero poche azioni, tutte a basso costo: vaccinare le popolazioni a rischio, portare acqua pulita nelle case, curare l’igiene con un buon sistema fognario. Ma anche e soprattutto eliminare lo stigma che circonda la malattia – forse proprio a causa della facilità con cui potrebbe essere debellata – e che impone a molte autorità sanitarie di troppi paesi di tenere nascosta la realtà, finendo per acuirla. È anche per questo che la settimana scorsa la Global task force on cholera control ha lanciato la sua nuova campagna: Ending cholera. Eradicare questa malattia infettiva entro il 2030 in almeno 20 paesi e ridurre il numero complessivo di morti del 90%. La strategia dell’Oms prevede tre azioni specifiche. Il prima è allestire un sistema di allerta precoce: intervenire con tempestività al primo segnale di malattia in una qualche zona. Non è complicato. Ma occorre che i 69 paesi interessati cessino di considerare uno stigma la malattia e la considerino come un problema da risolvere. La seconda strategia consiste nell’allestire un approccio multisettoriale per la prevenzione. A iniziare dalla realizzazione di sistemi di igiene. La terza consiste nel mettere su un reale sistema di coordinamento per intervenire nei casi di emergenza. Nello sviluppo di Ending Cholera, l’Oms sarà aiutata dalla Bill & Melinda Gates Foundation dove lavora Anita Zaidi. È certamente un bene che i privati diano il loro contributo a combattere questa resistibile malattia infettiva. Tuttavia gli interventi filantropici rischiano di far dimenticare che il colera è solo e unicamente una “malattia della povertà”. Una malattia, anzi, della povertà estrema. Di quella condizione di vita, cioè, che impedisce – secondo la stessa Organizzazione Mondiale delle Sanità – a 844 milioni di persone di avere accesso a una quantità sufficiente di acqua potabile; a più di 2 miliardi di persone di non bere acqua contaminata da batteri fecali; a 2,4 miliardi di persone di non vivere in case con igiene insufficiente. Una situazione che potrebbe peggiorare. Il colera, come abbiamo detto, è endemico in molte parti del mondo, soprattutto in aree tropicali. Ne sono interessati l’India, il Pakistan, l’Indonesia, i Caraibi, oltre che lo Yemen a causa soprattutto della guerra in atto. Ma i nuclei principali sono nell’Africa sub-sahariana. Dove sono in atto cambiamenti che, da qui al 2030, potrebbero peggiorare le condizioni al contorno per lo sviluppo di epidemie di colera (e non solo). La popolazione africana sta crescendo a ritmi molto rapidi e, inoltre, si sta spostando sempre più dalle campagne alle città. I demografi delle Nazioni Unite calcolano che entro il 2030 il 50% degli africani vivrà in ambiente urbano, contro il 36% attuale. A trasferirsi saranno anche e soprattutto poveri, che andranno a vivere in quartieri periferici altamente degradati – li chiamano slums – dove l’igiene e l’accesso all’acqua potabile sono un miraggio. Già oggi il 60% della popolazione urbana dell’Africa sub-sahariana vive in slums. Già oggi tre africani su cinque che abitano in città vivono in condizioni di povertà così estrema da non avere un bagno decente, un accesso a un sistema fognario, una quantità minimia di acqua potabile. È evidente, dunque, che per battere il colera occorre contrastare questa povertà estrema. Occorre un intervento pubblico globale in grado se non di eliminare, quanto meno di ridurre le enormi disuguaglianze nel mondo. Per fare tutto questo non basta la scienza (anche se è necessaria). Non basta la filantropia (anche se è d’aiuto). Per fare tutto questo occorre, come si sarebbe detto un tempo, anche e soprattutto la politica.

Nel 1817, duecento anni fa, un’epidemia di colera colpì l’Asia meridionale, l’Africa orientale, il Medio Oriente e l’Europa. Il Vibrio cholerae, il batterio agente infettivo della malattia, si portò via centinaia di migliaia di vite. L’evento si ripeteva ancora una volta, nel mondo. E non c’era nulla da fare. Non c’erano, allora, né il vaccino né una chiara comprensione dei meccanismi di trasmissione della malattia. Nel 1817, duecento anni fa, un’epidemia di colera colpì l’Asia meridionale, l’Africa orientale, il Medio Oriente e l’Europa. Il Vibrio cholerae, il batterio agente infettivo della malattia, si portò via centinaia di migliaia di vite. L’evento si ripeteva ancora una volta, nel mondo. E non c’era nulla da fare. Non c’erano, allora, né il vaccino né una chiara comprensione dei meccanismi di trasmissione della malattia.

Ma ora, nel 2017, scrive – anzi, grida – da Seattle, negli Stati Uniti, la pakistana Anita Zaidi, direttrice del Vaccine development, surveillance, and enteric and diarrheal diseases della Bill & Melinda Gates Foundation, nessuno dovrebbe morire di colera. Perché abbiamo il vaccino, sappiamo come si trasmette il Vibrio cholerae e, soprattutto, possiamo interrompere con pochi euro la sua azione malefica. E, invece, il colera continua a uccidere. Ed è ancora endemico non solo nell’Africa sub-sahariana, ma anche in Asia e nei Caraibi. Inaccettabile.

In Yemen, per esempio, negli ultimi cinque mesi questa malattia infettiva si è portata via la vita di 2.000 persone e ne ha contaminate 700.000 mila. Più di quanto avesse fatto ad Haiti, nei mesi successivi al terremoto del 2010. Per inciso, nell’isola caraibica da sette anni non si riesce a debellare il resistibile attacco del Vibrio cholerae. Ma non c’è solo lo Yemen, dilaniato da una guerra dimenticata. Né Haiti, il paese forse più povero al mondo. In questo momento il colera interessa la Somalia, con l’attacco più acuto degli ultimi cinque anni, non meno che il Sud Sudan, che dal giorno dell’indipendenza, nel 2011, non ha conosciuto un solo giorno di tregua da parte dell’infezione.

La verità è che il colera è tuttora endemico in ben 69 paesi, dove ogni anno uccide 100.000 persone e ne contagia 3 milioni, la gran parte bambini: tutte vittime evitabili. Facilmente evitabili. Basterebbe una soluzione reidratante ingeribile per via orale dal costo di pochi centesimi per ridurre la mortalità da più del 50% a meno dell’1%. Il fatto è, ricorda Anita Zaidi, che questa banale soluzione non riesce a raggiungere decine di migliaia di persone, condannandole così a morte.

Dal 2013, poi, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) si è dotata di un ampio stock di vaccini e ne ha distribuiti 13 milioni di dosi. Ma le domande inevase sono ancora, appunto, milioni.  Ma non c’è solo il vaccino. E neppure solo la soluzione reidratante. Abbiamo una serie di trattamenti possibili, sappiamo dove ci sarà la prossima epidemia – lungo un fiume, in un estuario, lungo una costa dove le acque, contaminate da feci, vengono utilizzate per usi domestici: per bere o lavarsi. Eppure, per debellare del tutto il colera, basterebbero poche azioni, tutte a basso costo: vaccinare le popolazioni a rischio, portare acqua pulita nelle case, curare l’igiene con un buon sistema fognario. Ma anche e soprattutto eliminare lo stigma che circonda la malattia – forse proprio a causa della facilità con cui potrebbe essere debellata – e che impone a molte autorità sanitarie di troppi paesi di tenere nascosta la realtà, finendo per acuirla.

È anche per questo che la settimana scorsa la Global task force on cholera control ha lanciato la sua nuova campagna: Ending cholera. Eradicare questa malattia infettiva entro il 2030 in almeno 20 paesi e ridurre il numero complessivo di morti del 90%. La strategia dell’Oms prevede tre azioni specifiche. Il prima è allestire un sistema di allerta precoce: intervenire con tempestività al primo segnale di malattia in una qualche zona. Non è complicato. Ma occorre che i 69 paesi interessati cessino di considerare uno stigma la malattia e la considerino come un problema da risolvere. La seconda strategia consiste nell’allestire un approccio multisettoriale per la prevenzione. A iniziare dalla realizzazione di sistemi di igiene. La terza consiste nel mettere su un reale sistema di coordinamento per intervenire nei casi di emergenza. Nello sviluppo di Ending Cholera, l’Oms sarà aiutata dalla Bill & Melinda Gates Foundation dove lavora Anita Zaidi.

È certamente un bene che i privati diano il loro contributo a combattere questa resistibile malattia infettiva. Tuttavia gli interventi filantropici rischiano di far dimenticare che il colera è solo e unicamente una “malattia della povertà”. Una malattia, anzi, della povertà estrema. Di quella condizione di vita, cioè, che impedisce – secondo la stessa Organizzazione Mondiale delle Sanità – a 844 milioni di persone di avere accesso a una quantità sufficiente di acqua potabile; a più di 2 miliardi di persone di non bere acqua contaminata da batteri fecali; a 2,4 miliardi di persone di non vivere in case con igiene insufficiente. Una situazione che potrebbe peggiorare.

Il colera, come abbiamo detto, è endemico in molte parti del mondo, soprattutto in aree tropicali. Ne sono interessati l’India, il Pakistan, l’Indonesia, i Caraibi, oltre che lo Yemen a causa soprattutto della guerra in atto. Ma i nuclei principali sono nell’Africa sub-sahariana. Dove sono in atto cambiamenti che, da qui al 2030, potrebbero peggiorare le condizioni al contorno per lo sviluppo di epidemie di colera (e non solo). La popolazione africana sta crescendo a ritmi molto rapidi e, inoltre, si sta spostando sempre più dalle campagne alle città.

I demografi delle Nazioni Unite calcolano che entro il 2030 il 50% degli africani vivrà in ambiente urbano, contro il 36% attuale. A trasferirsi saranno anche e soprattutto poveri, che andranno a vivere in quartieri periferici altamente degradati – li chiamano slums – dove l’igiene e l’accesso all’acqua potabile sono un miraggio. Già oggi il 60% della popolazione urbana dell’Africa sub-sahariana vive in slums. Già oggi tre africani su cinque che abitano in città vivono in condizioni di povertà così estrema da non avere un bagno decente, un accesso a un sistema fognario, una quantità minimia di acqua potabile.

È evidente, dunque, che per battere il colera occorre contrastare questa povertà estrema. Occorre un intervento pubblico globale in grado se non di eliminare, quanto meno di ridurre le enormi disuguaglianze nel mondo. Per fare tutto questo non basta la scienza (anche se è necessaria). Non basta la filantropia (anche se è d’aiuto). Per fare tutto questo occorre, come si sarebbe detto un tempo, anche e soprattutto la politica.