Il cantante, voce storica dei La Crus, nel suo ultimo lavoro ha reinterpretato brani dei gruppi che in quegli anni proponevano musica e testi originali, dagli Üstmamò ai Csi. «Vorrei farne dei classici». Il tour a novembre

Mauro Ermanno Giovanardi è per molti Joe, voce storica dei La Crus, gruppo formatosi negli anni Novanta, con Alex Cremonesi e Cesare Malfatti. Amante del rock, appassionato di Nick Cave, folgorato da Tenco, Giovanardi si è, soprattutto, formato con la musica inglese, traendone ispirazione, cimentandosi poi nella rielaborazione testuale in lingua italiana. Che sia con il suo gruppo più noto, o in solitaria, come accadrà successivamente, il cantautore piemontese, che nasce bassista, ha dedicato anni alla ricerca di una sua vocalità, di una propria identità interpretativa per proporre oggi a un pubblico affezionato, e non solo, un album di brani scelti nella produzione della fortunata stagione musicale degli anni Novanta, dal titolo evocativo La mia generazione. Con criterio e sentimento ha selezionato canzoni e colleghi, tra i più significativi dell’epoca, per riportare alla ribalta un periodo florido per la musica italiana. Una stagione irripetibile in cui un gruppo di musicisti dopo aver vissuto e imitato certi modelli stranieri, perlopiù anglofoni, ha sentito che era arrivato il momento di parlare al pubblico nella nostra lingua. Gruppi come Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica, che in quegli anni sbocciavano; realtà come quella dei CSI, con quel Ferretti sorprendente; autori come Mimì Clementi dei Massimo Volume; brani tra i più evocativi, come “Cieli Neri” dei Bluvertigo o “Stelle buone” di Cristina Donà. Un’amata produzione riproposta in straordinari riadattamenti, tra tutti “Baby Dull” degli Üstmamò, pezzo cantato insieme alla magnetica Rachele Bastreghi dei Baustelle, con un video ispirato a Blow-up di Antonioni, omaggio alla pellicola in occasione del 50° anniversario della premiazione al Festival di Cannes. Oggi, Giovanardi è tutto questo, senza una punta di nostalgia, ma con tanta voglia di fare ancora musica, e cambiare, e trasformarsi perché, ammette, una delle cose più pericolose è restare immobili. Di nuovo in scena in tutta Italia dall’11 novembre, su quel palco per lui palestra fondamentale per migliorare e stare con il pubblico. Partiamo proprio da questo generoso progetto per ripercorrere i suoi recenti trascorsi di attività musicale, che lo vedono solista dal 2009, suggellati anche dalla Targa Tenco nel 2015 per Il mio stile, migliore album dell’anno. Lo stile, appunto, mai trascurato da Joe/Giovanardi.
Hai definito l’album “un pegno d’amore” per celebrare una stagione musicale unica, ricca di tanti artisti, ancora oggi di successo. Personalmente, ma anche professionalmente, a cosa “ti serviva” questo lavoro?
È stata anche una prova da interprete, per me. Quella più difficile, con il tasso di rischio più alto. Lo dico spesso: è più facile cantare un pezzo di Mina che di Ferretti, perché Ferretti, ma anche Mimì, hanno un modo così unico di cantare e se gli fai il verso non è più arte. Devi reinventare un modo: per il pezzo con Neffa (“Aspettando il sole” ndr), per esempio, non sapevo se sarei stato in grado, come interprete, di farne una versione mia. A me, personalmente, mi serve per aver capito che potevo fare uno step successivo, confrontarmi con questi pezzi era più difficile che confrontarmi con Ciampi, con Tenco o De André.
Il tuo percorso professionale è ripartito anche dalla separazione con i La Crus.
È stato difficile affrancarsi dai La Crus. Con loro è stato tutto importante, anche far convivere i nostri mondi distanti con l’idea continua di prendere la metodologia dell’hip hop e cantarci sopra, recuperando la canzone d’autore. Finché questo fuoco c’è stato, è stato bello. Poi, siccome i grandi amori non meritano mediocrità, è stato meglio chiudere il percorso, però è stato difficile. Dopo, per me poteva essere più facile continuare a fare roba elettronica, però dovevo costruire un altro immaginario intorno alla mia voce e fare un mio percorso.
Ne La mia generazione, la scelta dei brani è così variegata, allo stesso tempo sorprendente, con un criterio stilistico, ma anche semiotico ben preciso. Brani, che, decisamente, hanno segnato un’epoca.
Io, e tutti gli interpreti di questo disco arrivavamo da un background altro, che non era né quello dei cantautori anni Settanta, né quello della canzone italiana anni Ottanta, il pop per intenderci. In quelle nostre canzoni, che mi piace definire “storte”, c’era un modo di approcciarsi alla canzone in maniera un po’ più deviata. Oggi il desiderio era di farne dei classici, di dare un omaggio sincero, mettendo a disposizione la mia voce per raccontare quel momento lì.
Mi sembra che di strada, e di trasformazioni, tu ne abbia fatte molte, ricercando sempre qualcosa di nuovo, di diverso. Basta ascoltare la versione odierna di “Nera signora” (brano dei La Crus ndr) dove il tuo cambiamento di interpretazione è tangibile. La ricerca di un’espressione vocale che cosa significa per te?
La ricerca parte da lontano, da Dentro me, un altro album fatto con loro. Devo dire che, da sempre, quando scrivo i miei dischi la cosa che mi piace di meno sono io; ancora sento che non ho la padronanza della lingua, che è un po’ monocorde. Non riesco a capire se c’è un retaggio per aver ascoltato negli anni Ottanta tanta, troppa musica di gruppi new wave, che avevano un tono monocorde di cantare a cui ero affezionato o il passaggio dall’inglese all’italiano, che è stato difficilissimo per come gestire le parole e cantarle. Non l’ho mai raccontato a nessuno, ma le prime volte che registravo con i La Crus ero molto imbarazzato. Ho lavorato tantissimo sulla mia voce affinché diventasse uno strumento con cui poter giocare. Adesso mi sembra di cantare in modo più naturale e di saper gestire la voce. Uno dei complimenti più belli me li ha fatti Ivano Fossati quando su Crocevia rifeci il suo celebre “La costruzione di un amore” e lui mi disse che ero stato bravo perché in un testo così denso, così pregno, piuttosto che mettere avevo tolto.
A proposito di reinterpretazioni, la versione di “Baby-Dull” spiazza davvero: hai avuto riscontri dagli Üstmamò?
Una mattina ero a casa e mi sono sorpreso e commosso perché Mara (Redeghieri, voce degli Üstmamò ndr) mi ha chiamato e mi ha detto che il pezzo è bellissimo. In generale, tutti i colleghi che hanno partecipato all’album mi hanno detto che sono in grado di “giovanardizzare” tutto ciò che faccio! Mimì anche mi ha fatto i complimenti, soprattutto per i ritornelli che ho inserito, che sono spesso suoi versi.
Però Mimì dice pure che quella degli anni Novanta era una scena capace di sedurre anche gente che prima di allora non aveva mai ascoltato musica strana, mentre adesso non si è più sexy. Tu che cosa ne pensi?
Infatti gli ho detto: “Ma parla per te!” (ride) perché credo che una delle parole chiave del disco sia proprio “sexy” perché c’è tanto soul, c’è del blues. Soprattutto, c’è un modo nuovo di proporre la voce.