Qualcuno di loro ha addirittura cambiato numero di telefono. Qualcun altro, invece, ha già scambiato due parole con il suo avvocato per prevenire l’attacco. Poi c’è il regista napoletano che non sa più dove sbattere la testa e non si perdona di avere esagerato anche via sms o via mail, convinto della propria impunità. C’è il mostro sacro della televisione che rassicura tutti dicendo di avere “amicizie politiche importanti”, di stare tranquilli, come se non si sapesse che i suoi cambi alla conduzione siano legati più al concedersi che chissà a quali scelte editoriali. C’è addirittura lo storico conduttore che gigioneggia negli speciali, sul caso Weinstein, come uno spettatore indignato qualsiasi. Tutto intorno poi un bel pezzo del cinema italiano (e della televisione) s’è fatto corporazione per dire che non bisogna “sparare nel mucchio” eppure poi, sotto sotto, sono in molti tra agenti e produttori a far intendere che chi denuncia è fuori, che è meglio ripensarci.
Da una settimana Dino Giarrusso de Le Iene confeziona servizi che sono un conato che dovrebbe intasare lo stomaco del Paese, una sequela di donne attirate con un copione o la promessa una trasmissione o di una parte usate come esca che alla fine si sono ritrovate davanti al bivio dell’amplesso come prerequisito essenziale per essere valutate. Ci sono le voci di donne che hanno avuto addosso le mani unte di chi poi scorrazza sui giornali a insegnarci l’etica. Ci sono anche le aspiranti attrici a cui gli agenti dicono di lasciar perdere, di non rovinarsi la carriera. «Stronzetta, non l’hai capito che qui funziona così?» ha detto un prezzo grosso della Rai, sposato e con figli, a più d’una.
E mentre loro, gli orchi, cominciano a tremare, in giro c’è uno strano silenzio: “va bene la difesa a Asia Argento”, dicono in molti, “ma succede dappertutto, bisogna cambiare il paradigma”. E nessuno sembra avere voglia di spingere davvero, sui nomi. Tutti a godersi la para-pornografia dei racconti e nessuno che alzi la mano per dire “questo dobbiamo cacciarlo”. Tutti a dire che negli Usa il nome di Weinstein è stato fatto troppo tardi e intanto qui i nostri Weinstein non li nomina nessuno.
«E perché non li fanno le vittime, i nomi?», mi chiedono. I nomi ci sono, tutti, segnati. Tutti. Solo che ancora nel 2017 non ci si rende conto che la forza di denunciare sta in una mobilitazione generale che deve confermare una possibilità di cambiamento e che è l’ossigeno necessario alle vittime per avere la forza. Forse non ci si rende conto che, ancora una volta, ci si sta perdendo sull’ultimo passo di una denuncia che sarebbe drammatico lasciare cadere.
Bisogna sentire coraggio intorno per trovare il coraggio. E intorno ci siamo noi. Noi che scriviamo sui giornali ma abbiamo l’anaffettivo vizio di disamorarci così in fretta delle storie e delle loro vittime; noi che se la denuncia non arriva dalla “nostra” trasmissione o dal “nostro” giornale la riteniamo meno degna e nel frattempo sono meno degne anche le sue testimonianze; noi che ci indigniamo leggendo il New York Times ma non toccateci i porci nostrani; noi che abbiamo imparato a difendere le donne senza nemmeno prenderci la briga di attaccare gli uomini che lo meriterebbero; noi che ci buttiamo sulla caccia alle streghe ma gli stregoni chissà perché li lasciamo tranquilli.
Noi che negli ultimi quindici giorni non siamo stati capaci di dire “state tranquille, denunciateli tutti, denunciamoli tutti, denunciamo tutto. Ci siamo noi, qui”. Anche se vi è antipatica quell’attrice. Anche se non guardate Le Iene.
Buon venerdì.