Un “duello” con il pianista Fabrizio Puglisi nell'ultimo album “Sento doppio“. «La mia voce? La uso come uno strumento, lancio dei suoni ma voglio che sia una cosa naturale»

Non bastano gli aggettivi per definire la sua voce. Ascoltandola, si ha sempre la sensazione che possa andare oltre, piacevolmente sconfinare. Abbandonata la veste del cantautore tradizionale, affrancandosi, anni fa, dai Quintorigo, gruppo musicale con cui negli anni Novanta si è fatto conoscere, partecipando persino a Sanremo, John De Leo, si è reinventato solista, non restando mai da solo, tiene a precisare: «Da soli si combina poco o niente. Sempre più ho cercato di connettermi a musicisti con i quali era possibile trovarsi d’accordo anche da un punto di vista umano. Tengo anche molto alla musica, a quella che è l’opera oltre le persone».

Artista anticonformista, improvvisatore incallito, che usa la sua voce come gli pare, anche se lui ci tiene a paragonarla a un mero strumento. Schivo, ma coinvolgente, lontano da mode ed effimere tendenze, ma sempre affascinante, De Leo è una figura chiave della musica italiana contemporanea, votato a sperimentare le infinite possibilità di una voce che può assumere contorni e colori nuovi, a prescindere dai suoi intenti. Di collaborazioni e “connessioni” il cantautore ne vanta davvero molte, nel panorama musicale e jazzistico, ma anche letterario, italiano, per citarne alcune: Stefano Bollani, Paolo Fresu, Danilo Rea, Ivano Fossati, Franco Battiato, Alessandro Bergonzoni. Dopo Vago svagando e Il grande Abarasse, adesso un terzo album, ideato e progettato con Fabrizio Puglisi, Sento doppio uscito il 6 ottobre per Carosello Records.

Lo incontriamo in occasione dell’uscita di questo nuovo lavoro che, puntualizza di nuovo l’artista, senza questa stretta collaborazione con il pianista e compositore Puglisi, non sarebbe mai nato: «Va ribadito che è un nostro progetto, non sarebbe stato possibile il risultato finale, il parto della nostra combinazione, se non avessimo lavorato insieme». Venerdì 3 novembre De Leo è a Roma, alla Feltrinelli di via Appia, per esibirsi e dialogare con il suo pubblico. Poi, in giro per altre città d’Italia, come puntualmente comunicato sui social, anche se poi lui social non è tanto, confessa anche questo.

Di questo duo voce e pianoforte, di questo confronto/scontro tra due artisti oltre ogni regola, cosa vuole raccontarmi?
Ci siamo conosciuti qualche anno fa, a un vernissage, chiamati a musicare delle opere pittoriche in estemporanea. Abbiamo poi deciso di ripetere l’esperienza, di provare a fare qualcosa di nostro, di più strutturato, ma non ci siamo riusciti (dichiara con ironia ndr). Per un anno e mezzo abbiamo passato il nostro tempo a fare delle prove, senza nessuna meta, giusto per testarci e per testare la musica possibile. Ogni volta che costruivamo qualcosa avevamo una buona occasione per distruggerla e quindi questo disco, fondamentalmente, raccoglie queste improvvisazioni.

È un dialogo tra di voi, ma anche una sfida: la sua voce spesso sconfina, va oltre ogni registro. A proposito della sua voce, spesso paragonata ad altri (tra tutti torna sempre l’accostamento a Demetrio Stratos), lei tollera le definizioni che se ne danno oppure no?
In realtà spesso non mi piacciono le definizioni, ma mi disegnano, mi determinano, quindi sono legittime. Credo sia necessario essere riraccontati da altri, anche per vedersi davvero per quel che si appare. Questo discorso della voce mi è sembrato di minore importanza rispetto al mio fare musica. Diciamo che spesso, quando vengo ricordato, si soffermano sul particolare della voce, io ne prendo atto, ma non è la cosa più importante per me.

Quindi, il suo momento con la musica è di scoperta e ricerca continue o è consolidare quello che è già stato ottenuto?
Non lo so, però ogni volta che si finisce un progetto, si aprono altre porte, altre idee. Ho la necessità di fare il contrario di quello che è stato questo disco e quindi di dedicarmi alla composizione scritta nel dettaglio, anche se sicuramente farò tesoro di questa esperienza. Tenterò di miscelare l’improvvisazione radicale e le parti strutturate.

Pensando, mi si passi la provocazione, di fare anche cover?
Rifare cover in sé non lo credo un reato, sono reinterpretazioni di un brano; sono canzoni prese per essere reinterpretate e giocare sul tema. Non hanno senso se devono essere uguali al brano originale, ma quando chi le reinterpreta le fa proprie, ne dà un’altra natura, un’altra suggestione, allora va bene.

L’album offre otto brani intensi, che giungono all’ascoltatore spaesandolo a volte, ma che definiscono egregiamente un discorso musicale. Lei ha definito questo lavoro: «Musiche dell’errore e altri fonosimbolismi antiregime», ce lo spiega?
La speranza è che il disco, con tutto il significato che porta con sé, metta in moto interpretazioni proprie. In questo disco uso molto la voce ma non mi interessa solo lo strumento voce, ma il suo essere naturale, dove non c’è niente di pensato a priori; mi accorgo di non imitare solo degli strumenti, ma di lanciare suoni che possano avere un carico di significato, non particolarmente filosofico, anche primordiale.

Cosa le interessa, veramente, a proposito della voce?
Nei miei progetti, la voce è l’ultimo dei tasselli. Mi interessa, piuttosto, dove inscrivere questa voce, dove collocarla all’interno della composizione, dove collocare lo strumento voce tra gli altri strumenti.