Tamar Maatuf, 90 anni, non si dà pace. «Ringrazio Dio per avermi donato dei figli, ma il mio cuore è spezzato perché il figlio che ho perso non lo dimenticherò mai» ha raccontato ad al-Jazeera lo scorso settembre. Nonostante l’età, ha deciso di partecipare alla protesta degli ebrei mizrahim (in ebraico “orientali”) vittime del furto di bambini avvenuto in Israele negli anni ’50. Durante la manifestazione a Tel Aviv aveva un cartello in mano che recitava: «Caro figlio, non ho rinunciato a te. Ti aspetto, mamma». Il dramma di Tamar è simile a quello vissuto da altre centinaia di famiglie ed è conosciuto in Israele come Babies affair: la sparizione tra il 1948 e l’inizio degli anni ’50 di migliaia di neonati (forse 8.000) nei campi di transito e accoglienza degli immigrati ebrei «dell’est», provenienti cioè dai Paesi arabo-islamici.
Secondo le testimonianze raccolte dalla commissione Kedmi (1995-2001), le politiche di assimilazione dei mizrahim prevedevano la separazione dei bambini dai genitori. L’obiettivo, motivarono allora le autorità, era quello di dare ai piccoli un luogo più confortevole in cui crescere rispetto alle tende e alle strutture in lamiera che accoglievano gli adulti. Peccato però che questa «protezione» divenne per molti sparizione. Centinaia di famiglie hanno raccontato di essere state avvisate da questi centri sanitari della morte improvvisa dei loro figli. Al dramma della perdita del neonato, seguiva spesso un secondo trauma: quello di non vedere i cadaveri.
A pretendere «giustizia e verità» dallo Stato su questa vicenda, si batte da anni l’associazione Amram.
L’organizzazione sostiene che 5.000 neonati mizrahim sono stati sottratti ai loro genitori biologici con il falso pretesto che fossero malati per essere dati poi in adozione a loro insaputa o ad ebrei di origine europea (gli ashkenaziti) o all’estero. Proprio la lotta caparbia delle famiglie vittime dei rapimenti ha fatto sì in questi decenni che questa storia non finisse nell’oblio…