Le vacanze studio, i corsi di lingua all’estero, un anno di superiori fatto lontano dall’Italia: tutto può esser riconosciuto come alternanza scuola lavoro, evitando così gli stage di bassa qualità. Ma solo se te lo puoi permettere. Ecco come discrimina la Buona scuola

Dopo due anni di rodaggio, la tanto discussa alternanza scuola lavoro è entrata a regime. Duecento ore obbligatorie di stage nei licei, ben quattrocento negli istituti tecnici e professionali, da svolgersi anche nei periodi di vacanza o all’estero. L’esperienza però, in termini formativi, non è uguale per tutti. Mentre alcuni giovani accrescono le loro competenze servendo gratis caffè all’Autogrill (o Happy Meal al McDonald’s, la scelta è tristemente ampia), altri riescono a schivare queste “opportunità” – spesso le uniche a disposizione per chi vive in territori economicamente depressi oppure non può fare tirocini nell’azienda dei genitori – facendosi riconoscere come alternanza alcune attività davvero formative. Con un piccolo dettaglio: costano fino a 20mila euro.

Education First si descrive come “la più importante organizzazione internazionale privata specializzata in soggiorni studio e corsi di lingua” e propone periodi di lezioni all’estero, che vanno dalle 2 alle 52 settimane. «Paesaggi esotici, clima solare, gente cordiale: benvenuto nel campus di Honolulu», si legge nella brochure. Dodici settimane di corso intensivo alle Hawaii costano poco più di 8mila euro. Al centralino, una operatrice ci spiega con sicurezza: «Di base, i nostri corsi all’estero vengono riconosciuti come alternanza», anche se «il riconoscimento cambia da scuola a scuola»

Già, perché anche gli studenti possono proporre agli istituti di stipulare convenzioni con realtà individuate in modo autonomo, anche se l’ultima parola spetta ai consigli di classe e ai presidi. Che spesso, a quanto pare, accendono il semaforo verde affinché questi corsi siano equiparati ad ore di tirocinio. «Le ore di alternanza le verranno riconosciute, perché rilasciamo certificati di frequenza col report delle mansioni svolte» ci spiega un operatore di Viva Lingue, altra agenzia di soggiorni studio. Anche se «ogni scuola agisce in maniera diversa – aggiunge – perché ovviamente non è come fare una esperienza lavorativa (…) è una cosa un po’ anomala, fuori da quelli che sono gli standard». «Io ho dei licei che hanno detto “sì, anche se vai a lavorare in un negozio per noi va bene lo stesso perché tutto fa esperienza”, mentre altri sono molto più rigidi», aggiunge il dipendente.

Ma i corsi di lingua non sono l’unico modo in cui, estraendo il portafoglio, si ha la possibilità di evitare le alternanze di serie B. Anche andare “a scuola di diplomazia” è una alternativa valida. European people si occupa di sensibilizzare “giovani generazioni ai valori civili, sociali e democratici del cittadino europeo”. Per farlo, organizza viaggi a New York, in concomitanza col “National high school model United nations”, una simulazione dei negoziati dell’Onu per giovani studenti di tutto il mondo. Prima di decollare, gli studenti frequentano corsi preparatori. Novanta ore, che possono essere riconosciute come alternanza, si legge nel sito. Prezzo: più di 1.500 euro. Italian Diplomatic Academy offre servizi simili. Per diventare piccoli negoziatori dell’Onu il costo è più di 1.800 euro. «Il corso è valido come alternanza», recita il volantino disponibile online. E viene proposto a tappeto dai suoi dipendenti nelle scuole italiane. Ma, sebbene siano offerte alcune borse di studio, certi presidi si sarebbero rifiutati di firmare una convenzione che avrebbe rischiato di discriminare studenti facoltosi e studenti poveri.

Ma come è possibile che un corso formativo possa legalmente essere equiparato a uno stage dalle scuole? Il problema è che sotto il cielo delle norme, note, linee guida del ministero dell’Istruzione la confusione è grande. Per questo “la situazione è eccellente” per le aziende che si occupano di formazione, che hanno fiutato l’affare. Chi organizza corsi per “piccoli diplomatici” coglie al balzo l’opportunità offerta al punto 9 della Guida operativa per l’alternanza firmata dalla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur, che apre all’equiparazione tra stage e “lavoro simulato” in una “azienda virtuale animata dagli studenti”. I giovani, dunque, non lavorano veramente all’Onu, ma per il ministero va bene lo stesso. Inoltre, al punto 4 comma “e” si chiarisce che per “studenti solidi dal punto di vista delle conoscenze (cosiddette ‘eccellenze’)” è possibile attivare “percorsi formativi diversificati”.

Alternanza, insomma, può significare molte cose, a seconda dell’interpretazione delle norme, della sensibilità dei presidi e dell’ingegno delle imprese che – senza infrangere la legge – ci speculano. «Conosco studenti che hanno pagato 17mila euro per fare un anno di superiori all’estero col progetto Intercultura; al ritorno erano chiaramente molto soddisfatti», spiega Fabrizio Reberschegg, della direzione nazionale della Gilda degli insegnanti. Intercultura è il nome di una Onlus fondata nel 1955, che organizza e gestisce tutto il necessario per gli studenti che da settembre a giugno vogliono studiare sui banchi di una scuola lontana dall’Italia. «Ora tutto ciò è entrato nella dinamica dell’alternanza scuola lavoro.

Praticamente chi fa un anno all’estero si fa automaticamente tutte le ore di alternanza. Per il semplice fatto di essere stato all’estero». Borse di studio a parte (sono 25 quelle indicate come “totali”, ma se si legge bene sono esclusi comunque 800 euro, da pagare in qualsiasi caso), si va dai quasi 11mila euro per il Portogallo ai 23mila della Nuova Zelanda. «Ma quale famiglia normale può permetterselo?», sbotta Reberschegg. «Il business sulle esperienze all’estero c’è sempre stato – prosegue – però in questo modo viene ancor più legittimato, perché, siccome l’alternanza scuola lavoro è obbligatoria, le persone possono prendere due piccioni con una fava, fare un corso di inglese o di francese e contemporaneamente adempiere all’alternanza. Per cui si tratta una doppia presa in giro».

La posizione del sindacato Gilda sulla alternanza è radicale. «Bisogna togliere tutta la parte che la introduce nella cosiddetta Buona scuola, cassare gli articoli sulla alternanza». Ciò non significherebbe, peraltro, “tornare all’età della pietra”. «Lavoro in un istituto tecnico – racconta il sindacalista – e le esperienze di avvicinamento al mondo del lavoro le abbiamo sempre fatte, ben prima di questa legge, solo che non c’era l’obbligo di queste quattrocento ore micidiali. Così la quantità va a dispetto della qualità. Mi pare sia la più grande stupidaggine che si possa fare in questa fase in Italia». «È un regalo fatto alle imprese», sintetizza bruscamente Reberschegg. C’è poi un altro problema, collaterale: la mancanza di vaglio sui progetti ad opera di presidi e consigli di classe, investiti da questo nuovo ruolo di “controllori”. «Il problema è che i dirigenti ci tengono molto ad agevolare la possibilità per i propri studenti di fare questi progetti, perché rappresentano “fiori all’occhiello” per la scuola». Scuola che si trova a dover competere sempre di più con gli istituti limitrofi, a caccia di un alunno in più per poter rimpinguare casse (attraverso i contributi volontari) e prestigio della scuola.

Più cauta la Cgil, che però conferma che l’alternanza così non va. «Gli stage all’estero si son sempre fatti – ricorda a Left Patrizia Villa, nella segreteria Flc di Livorno – ma in questo modo si discrimina gli studenti, favorendo chi è in grado di “comprarseli”». «Il problema – prosegue – è l’eccesso delle ore, perché se ci fosse libertà nello stabilire il monte orario dell’alternanza si potrebbero attivare percorsi virtuosi». Mentre in questo modo, puntando sulla quantità, i risultati sono talvolta tristemente paradossali. «Abbiamo avuto casi di studenti che sono andati a fare l’alternanza scuola lavoro nelle aziende dove erano stati licenziati i padri – spiega – e magari sono andati lì a fare un “lavoro nero” col quale si sostituivano nella mansione del padre licenziato. Sono cose “fuori dal mondo”».

I ragazzi, nel frattempo, non restano a guardare. Il 17 novembre l’Unione degli studenti ha lanciato gli Stati generali dello sfruttamento, assemblee pubbliche costruite insieme al sindacato «in cui fare fronte comune ed opporsi alla retorica dell’“economia della promessa” e all’attacco col quale i ragazzi vengono messi “contro i loro genitori”, entrando in concorrenza con loro, con chi un lavoro già ce l’ha, dando così vita all’ennesima guerra fra poveri», spiega Francesca Picci, coordinatrice nazionale Uds. «Un percorso che porterà ai cortei del 24 novembre». «Noi vogliamo essere formati, non sfruttati, vogliamo una formazione al lavoro che sia di qualità e con delle tutele», spiegano gli studenti nella nota che annuncia la protesta. Tutele che siano davvero alla portata di tutti, non solo per chi può permettersi di comprarle.

L’inchiesta di Patrizio Marchetti è tratta da Left n.46


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