La regista Francesca Pirani presenta a Roma, al Teatro India, il 26 e il 27 novembre un suo nuovo testo teatrale sul Movimento del '77. Con gli attori della scuola specialistica del teatro di Roma, è diventato uno spettacolo con musiche d'epoca eseguite dal vivo, che scandiscono i vari passaggi della narrazione.

Per decenni nella storia italiana si è presa come data esemplare e punto di non ritorno il 9 maggio 1978, giorno della morte di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana “giustiziato” dalle Brigate Rosse, un gesto in cui si configurava l’uccisione del padre. Ma è il 12 maggio 1977, con il corpo di un’adolescente riverso a terra all’imbocco di Ponte Garibaldi a Roma, che la tragedia investe tutta una generazione, forse perché nella morte “casuale” di Giorgiana Masi, nell’immagine di una ragazzina di neppure vent’anni, si concretizza e si rappresenta l’idea dello slancio, dell’utopia di una rivolta che nasce e muore nell’arco di pochi mesi, stroncata da un killer invisibile, virus mutante, che si nasconde nei pensieri, nelle idee, nelle parole.

Come è potuto accadere che un’area non trascurabile di ragazzi poco più che ventenni si sia trasformata in una banda di dèmoni dostoevskiani? Che l’hascisc e la marijuana siano state spazzate via da un fiume di eroina?

Le domande a cui non fu offerta alcuna risposta, la sete di fantasia e di libertà che non trovarono sorgenti ma pozzi avvelenati, impedirono la nascita di un’identità nuova, ancor peggio, produssero molte catastrofi sorde, i cui pezzi schizzarono in cento direzioni. Per la perdita del futuro, milioni di ragazzi smarrirono completamente non solo la possibilità, ma l’idea stessa di trasformazione, di un’alternativa umana diversa, lasciando dietro di sé un conto aperto, il senso di un’occasione mancata. «Non è il ’68. È il ’77. Non abbiamo né passato né futuro. La storia ci uccide» recitava una scritta sul muro dell’università di Roma.

Il movimento del ’77 è stato un fenomeno tutto italiano, quasi del tutto sconosciuto fuori dei confini nazionali e in larga misura cancellato o ignorato anche in Italia. Il primo movimento privo di sponda politica, senza una strategia, un’organizzazione, una cultura unificante in grado di tenerne assieme le innumerevoli differenze. Un quadro di fronte al quale le forze politiche presenti, il Partito comunista e la Democrazia cristiana, convergevano nello stigmatizzare e liquidare senza appello un movimento giovanile costituito da centinaia di migliaia di ragazzi, studenti e “proletariato metropolitano”, cui chiusero la porta in faccia, combattendole come il proprio peggior nemico. Erano gli anni del compromesso storico fra cattolici e comunisti, in cui il timore di una deriva cilena aveva spinto il più grande partito comunista dell’Occidente a cercare una mediazione con le forze cattoliche più moderate, per tentare un possibile accesso al governo del Paese ed uscire da trent’anni di opposizione parlamentare.

Così il movimento del ’77, come un figlio indesiderato di genitori in altre faccende affaccendati, cresce ineducato, rozzo, esigente, violento. La sua identità è fatta di rifiuti, ma più spesso di negazioni, solo contro tutti. Sviluppa una prassi incapace di mediazioni e reagisce a tutto, dissipa energie nel furore di un “ora e subito” che esige la soddisfazione immediata dei bisogni. Tutto il ’77 è una corsa a perdifiato all’espressione, tra cori, filastrocche, messaggi-fiume alle radio libere, slogan, scritte murali: L’inferno è rosso il paradiso lo sarà! / Cambiamo la vita prima che la vita ci cambi / Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è quindi eccellente / Sarà una risata che vi seppellirà Compagni nella lotta, fascisti nella vita, con questa ambiguità facciamola finita / Cosa diciamo compagni? Basta! Cosa vogliamo? Tutto!… È l’anno dell’inventiva, del dissenso, dell’iconoclastia declinata in modo variopinto e immaginifico, delle incursioni dada, come quelle degli “indiani metropolitani”: Manitù Manitù la tristezza non c’è più/ W i disadattati organizzati/ / Risate rosse / Siam violenti, siam dementi, siamo sempre più scontenti / Era una notte di lupi feroci, l’abbiamo riempita di luci e di voci /Ci tolgono la gioia, ci tolgono la vita, con questo sistema facciamola finita.

L’anno delle radio libere (Radio Città Futura, Radio Onda rossa, Radio blu, Radio proletaria, Radio Singer, Radio Alice….), che in Fm veicolano movimenti collettivi e inquietudini personali, dei fumetti di satira crudele e irriverente (Il male, Cannibale, Frigidaire, alter alter, Rankxerox, Re nudo, Oask?!, Abat-jour, Viola, WoW, A/traverso) che intercettano in modo significativo gli eventi, le tematiche, gli stati d’animo collettivi: le relazioni fra compagni, i rapporti uomo-donna, il modo di fare politica, la ribellione ai compromessi del Pci, la droga, il suicidio. Sono alcuni dei temi ricorrenti delle lettere e delle telefonate irruente e accorate, che giungono ogni giorno al quotidiano Lotta Continua e alle radio libere, a migliaia da tutta Italia: uno scambio impressionante di pensieri e stati d’animo in presa diretta, registra e restituisce l’identikit sfaccettato di una generazione, l’elettrocardiogramma del movimento, che cresce e si propaga in tutta Italia nell’arco di pochi mesi, generando l’idea, o piuttosto l’illusione, di una trasformazione in atto, che poi non riesce a svilupparsi e crolla sotto il peso di ciò che non si compie.

All’euforia subentra la rabbia e con essa la disperazione, per un fallimento avvertito come incipiente. Pur rifiutando le modalità della dialettica parlamentare e non riconoscendosi minimamente nelle organizzazioni dei partiti e dei sindacati, cionondimeno quello del ’77 è stato un movimento politico, per lo scontro diretto che instaurò con lo Stato, conflitto violento, spesso armato. E la condanna, in blocco, senza appello, per tutto ciò che in quel movimento si espresse, (tranne forse per alcune innovazioni e giochi linguistico-iconografici subito recuperati dal mercato pubblicitario) ha impedito per quarant’anni di esplorare la storia di una generazione, i motivi di un immane, tragico fallimento, una scia impressionante di morti.

1977 fuga in avanti: la “bellissima” fretta di vivere tutto, un cerino che brucia da due parti, la fine della corsa però, lo sentono quasi tutti. Ed è forse per questo crollo che la maggior parte non si è lasciata quel momento veramente alle spalle, damnatio memoriae, nervo scoperto pronto a rispondere, è ciò che si avverte in chiunque abbia vissuto il ’77 e venga interpellato: come il big bang, ha disperso frequenze ancora percepibili, lasciato ad ognuno un suono, chi una ferita, chi un rancore, qualcuno ha tenuto per sé un sogno. È significativo che a distanza di quarant’anni non vi sia stata un’autentica elaborazione di cosa sia stato il ’77, concentrando solo l’attenzione mediatica sull’esplosione del terrorismo, che, seppure ne sia l’aspetto più eclatante, non è sovrapponibile tout court e non rappresenta certo la maggioranza di quel movimento. Abbiamo così da una parte la generazione dei venti-trentenni, ovvero dei figli e degli allievi di quelli che furono i protagonisti di quell’anno, che non sa nulla, e nel migliore dei casi confonde il ’68 col ’77, e dall’altra i settantasettini, compresi coloro che sono divenuti scrittori, pubblicitari, giornalisti televisivi e della carta stampata o professori, che non hanno mai veramente proposto una ricerca su un passato su cui è calato il buio totale.

Azzardo un’ipotesi. Forse perché qualcuno aveva capito subito la portata della tragedia in atto e immediatamente aveva dato una risposta. L’Analisi collettiva non a caso decolla nel ’77, si riempie in un lampo di quei ragazzi allo sbando, in rotta dai cento rivoli del movimento. Cambiano le parole: invidia, rabbia, bramosia, indifferenza, fatuità, dissociazione, annullamento… Parole misteriose, sconosciute: vitalità, nascita, sessualità umana, inconscio mare calmo. Cambia il pensiero. Poco a poco, con infinita calma, lo psichiatra Massimo Fagioli li rianima, li rimette in piedi, ascolta e interpreta. Rubo con qualche licenza dal suo scritto Le notti dell’isteria, pubblicato nel 1985: il ’77 morì con il ’77, «la rivoluzione culturale non aveva fatto un bambino, i giovani non erano riusciti a sognare. Addormentati nello stato di veglia scambiarono la realtà per un sogno e, non riuscendo a dormire davvero per aver abbandonato la realtà, scambiarono i sogni con la realtà». «Gli anni settanta videro la follia della rassegnazione e della non rassegnazione. Videro masse di giovani recuperare il tempo perduto nell’inquadramento in quei ranghi che avevano tentato di distruggere, videro gli altri, non rassegnati, ammalarsi di quella follia di rivolta totale, della negazione, della distruzione, dell’uccisione di se stessi non potendo uccidere gli altri».

Ma all’Analisi collettiva «…la realtà del sogno rendeva ognuno responsabile delle proprie immagini oniriche. Lo rendeva responsabile di quella realtà detta inconscio… di quanto nell’uomo non era mai stato considerato reale. La malattia era colpa? Errore? Impotenza? Scelta? Calcolo razionale? Nessuno sapeva». Non si era mai sentito niente di simile, «era come se quel medico si addormentasse quando il paziente raccontava il suo sogno… e sognasse facendo immagini stimolate dalle parole altrui. Era come se ricavasse da quei sogni ad occhi aperti la conoscenza dell’inconscio e l’interpretazione del latente dei sogni altrui…Vedeva e raccontava della bestia nascosta dietro un albero, del folletto nascosto sotto la foglia, del ciclope nascosto dietro la collina, della serpe nascosta in mezzo all’erba…».

L’articolo di Francesca Pirani è tratto da Left n.28 del 15 luglio 2017 


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