C’è ancora tempo fino al 26 novembre per visitare la 57^ Biennale d’arte internazionale di Venezia. Ed è una occasione da non lasciarsi sfuggire se si è stanchi del solito mainstream che rimbalza stancamente dalla Tate al MoMa, al Pompidou. Nella mostra curata da Christine Macel e intitolata Viva arte viva non c’è traccia della abbagliante bigness delle opere giocattolo alla Jeff Koons, non c’è la ricerca dell’effetto choc e dello spaesamento postmoderno. E, cosa ancor più sorprendente, non ci sono gli epigoni di quell’iper concettualismo arido e auto riflessivo di marca anglosassone che va per la maggiore ormai da una ventina d’anni, portando all’estremo il minimalismo degli anni Ottanta. La scelta della curatrice francese ha spiazzato critici e habitué del circuito internazionale delle Biennali. Ed è stata bersagliata da critiche. Ingiustamente. Proseguendo sulla strada aperta da Massimiliano Gioni che con il suo Palazzo enciclopedico nel 2013 esplorava, seppur in modo un po’ folkloristico, culture visive fuori dal ristretto ambito eurocentrico, proseguendo su sentieri paralleli a quelli Enwezor (a cui si deve la mostra più politicamente impegnata degli ultimi quarant’anni), Christine Macel ha avuto il coraggio di invertire la rotta della spettacolarizzazione andando a esplorare modi diversi di concepire e fare arte, in aree del mondo fin qui poco considerate dal sistema dell’arte ufficiale che tutto assimila al modello occidentale.
Si scoprono così le azioni nella natura, le originali casette sul fiume, di The Play, uno storico gruppo che riunisce un centinaio di artisti attivi nella zona del Kensai giapponese, ma anche le poetiche installazioni realizzate dal kosovaro Petrit Halilaj con tappeti tradizionali ricamati che sembrano farfalle, disseminati in spogli accampamenti. Il giovane artista evoca con le sue installazioni la memoria dell’esilio, alludendo al contempo a una possibilità di trasformazione interna. Ricrea i gesti degli indigeni impegnati nell’estrazione del caucciù dai tronchi dell’Hevea, facendone una danza di foglie e di colori, la vietnamita Thu van Tran emigrata in Francia. Il tema dello sradicamento, del viaggio, dell’incontro con culture diverse è uno dei fili rossi che attraversano tutta la mostra. Un incontro scontro che non di rado – per dirla con De Martino – determina una profonda crisi della presenza. Fino all’estremo: per difendersi, diventano presenze statuarie e silenziose, i protagonisti degli scatti fotografici del nigeriano Jelili Atiku.
Una nave carica di memorie
Una grande nave, leggera ed elegante, invita a solcare i mari della storia. Il padiglione di Singapore alla Biennale di Venezia ci regala l’emozione di un viaggio a ritroso nel tempo fino ad approdare nell’antica Malesia dove nacque la storia di Dapunta Hyang. Così, con questa favolosa imbarcazione fatta di rattan, spago e cera d’api, arrivano a noi libri sigillati che ci consegnano le memorie di pescatori contenute nel Mak Yong, opera della tradizione preislamica. Insieme alle eleganti sculture di Mohsen Vaziri, maestro novantenne che vive fra Roma e Teheran (a cui è affidato il padiglione nazionale dell’Iran), questa nave-nido ideata dall’artista Zai Kuning è una delle opere più poetiche e coinvolgenti della Biennale internazionale d’arte che prosegue fino al 26 novembre ai Giardini e all’Arsenale. Come accennavamo qualche settimana fa parlando della mostra Viva Arte Viva, curata da Christine Macel, questa 57esima edizione riscalda il cuore di chi cerca una via d’uscita da un sistema internazionale dell’arte ancora bloccato nella celabrazione del postmoderno con tutti i suoi cascami. Chi non ne può più delle spettacolarizzazioni alla Hirst e dei giganteschi gadget griffati Koons, in Laguna quest’anno può intravedere nuovi orizzonti.
«L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo – scrive Christine Macel -, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo. Essa è il luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali. L’arte è l’ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e rappresenta anche un’alternativa all’individualismo e all’indifferenza». Con questa idea, la curatrice ha inanellato proposte che ci parlano di culture silenziose che resistono alla distruzione, che si oppongono al pensiero unico del mercato e del Logos occidentale. Questo filo rosso che innerva la mostra Viva arte viva trova eco anche nelle proposte di padiglioni nazionali come, ad esempio, quello dell’Egitto con il potente The mountain di Moataz Nasr, un’opera di videoarte (realizzata con Galleria Continua) in cui si racconta di una giovane donna che, finiti gli studi, torna nel proprio villaggio, sfidando paure ataviche che costringono gli abitanti a vivere nascosti. «Più che mai, il ruolo, la voce e la responsabilità dell’artista appaiono cruciali – sottolinea la direttrice della Biennale 2017 -. È grazie alle individualità che si disegna il mondo di domani, un mondo dai contorni incerti, di cui gli artisti meglio degli altri intuiscono la direzione».