In viaggio nei luoghi martoriati dal conflitto dei primi anni Novanta all’indomani della condanna di Mladic. L’ergastolo per crimini contro l’umanità è stato accolto con sollievo dai familiari delle vittime di Sarajevo e Srebrenica. Lo sdegno dei serbi: «Senza di lui saremmo stati sterminati»

Mentre Ratko Mladić gridava ai giudici “Laž, laž” (bugia, bugia), un gruppo di una decina di persone si lasciava finalmente andare a un breve applauso e a un respiro profondo. Per tanti anni quelle parole “doživotna robija” (prigionia a vita) sono state pretese e attese ed ora, davanti alla televisione, nel mattino del 22 novembre a Sarajevo, vengono accolte con un giubilo pacato e un amaro sollievo. Il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja ha sentenziato il generale delle truppe serbe bosniache Mladić, dichiarandolo colpevole di crimini contro l’umanità, del genocidio di Srebrenica del luglio 1995 che ha causato la morte di oltre 8mila persone, di terrore contro la popolazione civile di Sarajevo, della presa in ostaggio del personale dell’Onu. Con questo giudizio, si chiude dopo 530 giorni di processo e 591 testimoni, l’ultimo atto del tribunale speciale dell’Aja.

«Forse oggi posso mettermi l’anima in pace» sussurra Bahra Hodžic, alzandosi stremata dalla sedia dove è rimasta incollata ad ascoltare la sentenza, con gli altri genitori appartenenti all’associazione dei bambini vittime della guerra. «Il dolore e l’ingiustizia sono arrivati all’improvviso, la giustizia ci ha messo molto di più» aggiunge. In mano una foto di suo figlio, sul tavolo con la coperta verde delle biglie da gioco e un peluche, che si confondono alle foto di altre vittime e a oggetti che a loro appartenevano. A Bahra la guerra ha portato via tutto: casa, figlio, marito, madre. Solo chi ha patito la medesima sorte può capire la sua pena.

Le persone nella sala non hanno molta voglia di chiacchierare dopo il verdetto, hanno fretta di tornare a casa, sedersi tranquilli, lasciar scorrere il dolore di una ferita aperta, che questa condanna aiuterà per lo meno ad alleviare. Ne è convinto Ramiz Holjan, un signore di 65 anni, che non ha trovato pace dal 16 dicembre 1992. Era una giornata di sole, suo figlio Admir si era comportato bene a pranzo dai vicini. Aveva voglia di giocare. «Posso uscire?» chiese al padre. «Certo» gli rispose Ramiz. Pochi secondi dopo la casa tremò per un’esplosione. Ramiz e tutti i vicini scesero in strada a vedere ciò che era successo. Non potevano…

Il reportage di Nicola Zolin prosegue su Left in edicola


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