Dall'hip hop alle nuove sonorità. Il 9 dicembre al Monk di Roma presenta live i brani del suo ultimo album Mezzanotte

Rinnova ancora il suo stile con l’album Mezzanotte, Ghemon, al secolo Gianluca Picariello, avellinese, classe 1982. Da anni sulla scena, prevalentemente conosciuto come artista hip hop: dal graffitismo degli anni Novanta, alla musica rap e alla radio, sperimentando diverse collaborazioni e progetti, concretizzatisi in una serie di album nel primo decennio degli anni 2000. Con Orchidee, nel 2014, l’artista, che porta il nome di un personaggio di Lupin, riceve maggiori consensi e successo di pubblico per un prodotto che mescola diversi stili musicali. Quattordici tracce nuovissime per un lavoro più completo, anche maturo, in cui il cantautore campano si cimenta maggiormente in composizione e arrangiamento. Un album di rinnovamento per continuare un discorso prettamente biografico, lui che già cantava “Adesso stringo ciò che sono diventato” tra cui spicca oggi l’evocativa “Un temporale”. Non ha fatto mistero, Gianluca/Ghemon, di aver superato un momento personale di difficoltà, di depressione, ma stavolta con lui parliamo di cambiamento, della ripresa, attingendo solo un momento al passato, per ricordare la sua laurea in Legge, ma guardando al futuro. A volte incompreso, nel panorama musicale italiano, per non essere stato “collocato” in uno stile definito, Ghemon ammette di aver sperimentato tanto, di aver osato e oggi ha le idee più chiare e fa quello che gli piace.
Sono passati tre anni dal precedente album, che ha riscosso un certo successo di pubblico e critica; stavolta, c’è altro, viene da dire che ti appartiene di più. Cosa troviamo di diverso, in Mezzanotte?
Questo album non è un’estensione del precedente, ma un’evoluzione. Questo è mio perché arriva dopo, tutto quello che faccio è un percorso che va in avanti. “Orchidee” e tutto il tour che ne è venuto dopo sono stati tempi che hanno costituito anche un laboratorio che, con questo disco, si è materializzato. È anche molto diverso il momento di vita, sono un’altra persona.
Ascoltando i brani, tra cui “Cose che non ho saputo dire”, “Non voglio morire qui”, mi sembrano riflessioni molto intime.
Questo album, che è passato attraverso la sofferenza, è un disco molto più mio, certamente di maturazione, non solo dal punto di vista personale perché parla della mia persona, ma intendo più mio nel senso che mi rispecchia molto di più a livello artistico. Avevo iniziato a mettere le mani in quello che ho sempre voluto fare: coniugare strumenti, cantare e rappare, però era più un orientarsi. È un disco che avevo in mente nei suoni, nella visione, in come l’ho gestito.
L’esordio del tour è stato più che positivo con la doppia data milanese sold out, poi sarai in giro per tutta Italia, in particolare il 9 dicembre al Monk di Roma. In generale, che cosa ti aspetti dal pubblico?
Le avvisaglie sono ottime, le date di Milano e di Avellino sono sold out, ma anche altre sono in procinto. Il concerto non sarà il karaoke del disco, ma una sorpresa perché è una formula per i live nuova; peccherò di immodestia, ma non mi viene in mente nulla di recente che tocchi questi territori. Ai concerti, mi aspetto energia, sudore, sorrisi perché le persone verranno coinvolte, non verranno solo lì ad ascoltare me che canto le canzoni del disco.
Nessuna anticipazione?
Ci sarà una buona parte del disco nuovo che, per quanto sembri scuro, è molto energico, dà sfogo, è da urlare. Ci sono diverse cose di Orchidee, rivisitate in una chiave nuova, non solo di arrangiamento; poi ci saranno i brani del passato, precedenti all’esistenza della band. In più, il pubblico assisterà a piccoli momenti scritti apposta per il live, come se fosse uno spettacolo teatrale.
Tra un’esperienza artistica e l’altra, hai messo in mezzo una laurea in Giurisprudenza, peraltro alla Luiss a Roma. Come è successo?
Nessuno mi crede, però è vero. Da sempre volevo andare a Roma, anche a studiare. In realtà tutti gli amici e i compagni di classe andavano a Napoli a studiare (è il massimo dell’esotismo!), ma io ho sempre pensato alla capitale perché mio padre mi raccontava delle sue vacanze romane trascorse da uno zio. Fin da piccolo, non avendo la possibilità di andare al mare, lo “parcheggiavano” da lui d’estate e mi hanno sempre affascinato i racconti di lui scarrozzato a destra e a manca per conoscere la città. Quindi, Roma per me è stata sempre come una seconda casa, un posto molto familiare.
Avellino, poi Roma, adesso però vivi a Milano.
Mi sono trasferito otto anni fa, quando avevo bisogno di un cambiamento. Non mi
ero preposto di andare a Milano per far svoltare la mia carriera, non sono uno così strategico, ma avevo bisogno di un’aria diversa, di linfa nuova, per il mio modo di concepire il lavoro. Mi sono spostato e mi trovo bene. Il cuore, i ricordi più vivi, sono rimasti ad Avellino, anche se poi ho fatto mille altri giri per l’Italia, e per il mondo, per cui sono abituato a considerare casa il posto dove mollo la valigia per tre giorni di fila.
A livello professionale, hai sperimentato tanto, in questi anni. Artisticamente,
in che momento ti trovi?
Stavolta, redo di avere fatto, invece di uno scalino, due scalini; di avere visto che due scalini mi riescono e ho alzato la gamba per iniziare a farne altri due. Sono a metà di qualcosa di importante, che potrà venire con il mio libro che uscirà a marzo, o col tour che sta per iniziare. Ci sono tante cose in evoluzione, di quelle che io avrei voluto fare nella mia vita: declinare un messaggio in tanti modi e non fare solo il rapper, ma scrivere, cantare, fare radio. Non escludo niente! Se prima mi sentivo più insicuro nel gettarmi in esperienze nuove, adesso ci provo e vediamo se lo so fare bene. Tranne l’avvocato (ride).