«Nelle scuole e nel sociale vedo tanti giovani impegnati» dice Gustavo Zagrebelsky. «Aprendo a loro, la politica può ritrovare le energie che ha perduto e allargare la base democratica». E su Grasso: «Le sue dimissioni dal Pd un atto di dignità istituzionale. Ma che possa essere davvero leader d’una sinistra che rinasce dalle sue ceneri, a me pare francamente improbabile»

Giurista ed ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky dopo Diritti per forza (Einaudi, 2017) ha appena pubblicato un nuovo libro con Gherardo Colombo Il legno storto della giustizia (Garzanti). Queste due importanti uscite e la lectio che ha tenuto quando ha ricevuto il premio Sila alla carriera, il 25 novembre scorso, ci hanno offerto molti spunti per questa intervista. Ad un anno dalla vittoria del No al referendum sulla riforma costituzionale, contro la quale il professore emerito dell’Università di Torino si è molto battuto.

Professor Zagrebelsky il risultato del 4 dicembre 2016 ha segnato la fine del disegno renziano?

La riforma costituzionale unita alla legge elettorale con il ballottaggio rientrava in una strategia di presa del potere da parte dei dirigenti del Pd. Anche la “grande riforma” tentata da Craxi-Amato negli anni 80, come la riforma Renzi-Boschi, era mossa dal medesimo intento, sia pure con soggetti diversi e in condizioni imparagonabili a quelle attuali. Tra le tante, diverse motivazioni di coloro che hanno votato no, fra le più importanti, mi pare ci sia stato anche il timore di entrare in una specie di regime d’interessi piccoli e grandi, comunque poco chiari, che si estendeva a macchia d’olio, subalterno a poteri irresponsabili, aggressivo nei confronti di chi non fosse stato al gioco. Questo mi pare che abbia avuto un peso importante nel determinare l’esito del referendum, al di là dei meriti e dei demeriti d’una riforma che perfino coloro che la sostenevano pubblicamente, quando parlavano in privato, non osavano difendere. Non a caso: per loro la vera posta in gioco era un’altra. Su questo, sono stati sconfitti da un voto trasversale in cui, hanno detto gli analisti, i giovani hanno avuto un peso rilevante.

L’errore fu “personalizzare” la campagna referendaria, fu detto.

La personalizzazione, a ben vedere, è stata coerentemente conforme a quello che avrebbe dovuto essere il significato politico dell’operazione: l’investitura, l’apoteosi, di uno che credeva d’essere il capo. Dovremmo avere ancora in mente lo stile di quella campagna referendaria e possiamo chiederci e facilmente rispondere: che cosa sarebbe successo se riforma costituzionale e legge elettorale fossero andati in porto? Da quale valanga di propaganda saremmo stati investiti? L’uso delle istituzioni e la loro riforma come strumenti per conquistare e mantenere il potere è cosa che succede frequentemente in Sud-America, in Paesi di democrazia incerta.

Il No dei più giovani fu determinante. Che fine ha fatto quell’onda vitale di partecipazione?

L’apporto di tante persone appartenenti alle giovani generazioni – così hanno detto gli analisti del voto del 4 dicembre – fu essenziale. Il che autorizza a pensare che la ricerca di un “capo” che qualche volta viene presentata come una aspirazione profonda e sempre in agguato del popolo italiano non è così tanto radicata come si vorrebbe far credere. Davvero il presidenzialismo, o una formula qualsiasi d’investitura diretta o di plebiscito a favore di un capo al quale consegnare la sorte del nostro Paese, sarebbe ben visto? Forse…

 

L’intervista di Simona Maggiorelli a Gustavo Zagrebelsky prosegue su Left in edicola


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