Nonostante la fine della guerra tra Farc e governo le comunità difendono il loro diritto a coltivare il territorio. Contro le piantagioni di coca, i petrolieri e le speculazioni. Una protesta che sfocia nel sangue: 106 attivisti sono stati uccisi nel 2017

Ogni settimana prendono in mano il machete e marciano nel verde delle liane e dei cespugli selvaggi, dove quasi nessuno li vede. La guerra civile più lunga del mondo, – quella tra le Farc e il governo colombiano – , è ormai silenziosa e sopita, ma non è finita la lotta delle comunità indigene. Il presidente del Paese, Juan Manuel Santos, ha ricevuto il premio Nobel per una pace che non abita ancora quaggiù. Contro i trafficanti di droga, contro le multinazionali americane, la polizia e la deforestazione: gli indigeni delle tribù della valle Cauca combattono contro tutti. La chiamano la lotta per la “liberazione di madre terra”: reclamano i territori sfruttati per le coltivazioni delle piante di coca, per i resort di lusso destinati ai turisti, anche per le fattorie di allevamenti intensivi, – terreni che credono siano le loro terre ancestrali.

Quando le Farc hanno abbandonato il territorio colombiano, dopo gli accordi di pace dello scorso agosto, gang e gruppi armati hanno cominciato a scontrarsi per accaparrarselo, come ha fatto l’ Eln, l’esercito di liberazione nazionale e l’Epl, l’esercito popolare di liberazione. La valle Cauca, le montagne circostanti, le terre sterminate: come molte zone rurali, queste erano dominate dai soldati e dagli uomini in divisa delle Forze armate rivoluzionarie. Ora le Farc hanno consegnato le armi, ma anche il controllo del territorio, dove si occupavano della costruzione delle strade, gestione e controllo della comunità locale, tasse e costruzione di infrastrutture, lasciando un vuoto di potere che non è stato ancora riempito e per cui i membri delle tribù combattono senza armi. La Cauca è da sempre il nido dei gruppi paramilitari più bellicosi, ce ne sono dodici ancora attivi dopo che nelle Farc è stato avviato il processo di demobilitazione.

Le proteste indigene fanno finire i membri delle comunità locali in manette appena l’esercito arriva e comincia a sparare lacrimogeni sulle persone. A volte anche proiettili: è morto così, a 17 anni, Daniel Felipe Castro Basto, il 9 maggio scorso. A Corinto negli ultimi mesi le piantagioni sono state occupate, poi distrutte dalla polizia, poi rioccupate dagli attivisti, che vogliono porre fine al rifornimento di coca per i trafficanti di droga e vorrebbero riconvertire i terreni fertili in piantagioni per vegetali.

I Nasa, di una delle venti tribù più organizzate della valle, hanno alle spalle due morti negli ultimi anni e numerose operazioni di occupazione e riconversione dei terreni. Machete alla mano, in centinaia, a volte migliaia, arrivano per quelle che chiamano “minga”: tagliano e poi bruciano le canne da coca, da zucchero delle multinazionali e seminano quelle del mais e manioca. Anche i membri della tribù Kokonuko attaccano le loro bandiere verdi e rosse ai bambù delle loro tende e ne fanno una linea di fronte per proteggere le zone verdi: nell’ultimo anno la deforestazione in Colombia è salita al 44%.

I leader della rivolta e membri della comunità indigena sono stati assassinati di più proprio durante l’era post-conflitto, mentre lo Stato ha fallito sia nel prevenire le uccisioni, sia nel bloccare la diffusione del traffico illegale di stupefacenti. «Puoi vedere il sangue che è stato versato nella nostra causa per una terra migliore, per un futuro migliore per i nostri figli, liberare la terra significa difendere il territorio» ha detto Jose Rene Guetio, della tribù Nasa. «Stiamo morendo e non sappiamo chi ci sta assassinando». Fino a settembre scorso, 106 attivisti dei diritti umani indigeni sono stati assassinati in un anno, secondo l’ong Indepaz. Un anno prima, nel 2016, sono morti in 117. Per i Nasa la vita è peggiorata dopo gli accordi di pace: «dicono che la pace sia arrivata, ma per noi è molto peggio. Prima il conflitto con le Farc era regolare, ora ci sono gruppi più piccoli e non sappiamo chi ci sta uccidendo».

La morte, ma anche la propaganda. Dal 1975 al 2016 le Farc hanno reclutato 11mila bambini per addestrarli e renderli soldati fedeli tra le loro fila. La maggior parte dei minori proveniva dalle comunità indigene. Adesso il reclutamento non è finito solo perché il maggiore gruppo armato rivoluzionario si è sciolto: di far avvicinare gli studenti delle scuole alla loro causa ora si occupano gli altri gruppi nella regione di Meta, Guaviare e Caqueta.

Difendere la natura intorno vuol dire sopravvivere. Delle 102 tribù indigene colombiane, più della metà sono a rischio scomparsa per i conflitti in corso, perché spesso vengono sfollate per cedere spazio alle coltivazioni delle multinazionali, perché non hanno accesso al servizio sanitario statale, perché l’acqua che bevono non è potabile e per loro non ci sono né antibiotici né vaccini. Non solo per i fucili puntati delle bande e non solo perché vivono su territori fondamentali per le rotte del traffico della cocaina: gli indigeni abitano in zone che sono ricche di petrolio e gas, di importanza strategica per gruppi americani stranieri, per le multinazionali come la Occidental Petroleum di Houston o la RepSol spagnola. Il petrolio, però, per gli indigeni U’wa, è parte di una natura da difendere, per due decenni le loro campagne sono state pacifiche, le loro proteste non violente: «preferiamo morire piuttosto che perdere tutto ciò che riteniamo sacro, tutto ciò che ci rende degli U’wa», dicono gli indigeni che protestano calpestando una terra che ora tutti chiamano di pace e che è invece bagnata col loro sangue.