Il Cern mi aveva ispirato a un'idea diversa dell’essere autore: è anche colui che ha un’idea e poi mette insieme una squadra, dei talenti di altri artisti

Il senso della bellezza – Arte e scienza al Cern, film documentario di Valerio Jalongo è stato inizialmente proiettato nelle sale italiane unicamente il 21 e 22 novembre, riscuotendo un inaspettato successo tra il pubblico specializzato e non, tanto da richiedere una nuova programmazione in tutta Italia Quest’opera che indaga le connessioni tra arte e scienza, meraviglia il pubblico, aprendo le porte del laboratorio di ricerca più grande al mondo. Ed è proprio questa comunità scientifica internazionale, che in momento di crisi politica europea, rappresenta una realtà non più utopica, in cui la ricerca, il desiderio di conoscenza e libertà di pensiero sono animate da una passione collettiva.

Valerio Jalongo, lei è di formazione filosofo e solo successivamente si è dedicato al cinema. Cosa l’ ha portata a prendere questa strada?

Devo dire che erano due passioni che coesistevano fin dall’inizio. Uscito dal liceo non avevo le idee chiare ma la filosofia è una chiave per aprire tante porte. Non ho mai pensato di fare il filosofo, soprattutto quella del cinema è stata una passione che avevo fin da quando avevo 15-16 anni e che poi negli anni ha trovato un’ espressione. Forse questo film di speciale ha di mettere insieme queste due passioni e anche due sguardi diversi, cioè quello più scientifico, che ho ereditato dalla mia famiglia e quello artistico che invece è stata una mia scelta personale. Questa esigenza di mettere insieme arte e scienza è qualcosa che avverto molto forte dentro di me, non solo per il mio vissuto ma anche perché credo che la scienza ha ormai un ruolo così grande, sta cambiando le nostre vite, e non può più essere appannaggio di pochi. Ne faccio un discorso se vuoi di democrazia: spesso al Cern dicevano “La scienza non è democratica” perché non si fa una votazione per decidere chi ha ragione: chi riesce a fare l’esperimento, ha la teoria che funziona, vince. Però questo non vuol dire che non debba essere in qualche modo compresa da un grande numero di persone e in qualche modo ricondotta a degli obiettivi comuni.

Che cosa ha scoperto al Cern e come ha arricchito questa esperienza?

Il Cern per me rappresenta un’immagine della scienza libera da applicazioni immediate, da finalità di arricchimento, o utilizzi in campo militare ed economico. Una scienza, come appunto la filosofia, che è l’immagine più bella della volontà di conoscere dell’uomo, del coraggio di andare oltre quello che conosciamo. Credo che questo sia stato un po’ il primo motore per me, perché non è che avessi questa grande curiosità sul mondo delle particelle ma quando ho visto quelle macchine e come per farle funzionare servisse una collaborazione tra tutte le nazioni, mi è sembrata un’immagine potentissima di come potrebbe funzionare il nostro mondo e di come in realtà già funziona.

 

Come è nata l’idea di questo film?

Mi viene da dire come nelle cose artistiche, ma non solo, ci sono cose che hanno un’origine un po’ misteriosa. C’era un grande regista, Ingmar Bergman, che diceva che quando iniziava a scrivere un film era come se tirasse un filo e piano piano si srotolava tutta la matassa. Come si diceva prima, probabilmente era qualcosa di latente dentro di me rispetto a mie passioni come la filosofia, la scienza. E poi se devo dire come è nato, è nato in una maniera assolutamente poco cosciente. Sono andato a fare una visita al Cern mi hanno fatto scendere in queste caverne, ho visto queste macchine e ho pensato: come è possibile che non ne so nulla di questo luogo? Lì vedi davvero la potenza, anche in qualche modo spaventosa, della tecnologia, vedi una macchina alta venticinque metri come quei rilevatori con miliardi di cavi, di tubi, di sensori.. ma come è nata una cosa del genere? Noi fino a poco tempo fa eravamo delle scimmie e abbiamo costruito una cosa così complessa che sembra quasi oltre la nostra capacità. A questo si aggiunge che non ha un’utilità pratica. E proprio in questo vedo la sua origine profondamente umana: il desiderio di conoscere, la curiosità, mentre spesso noi la tecnologia la viviamo o come minaccia o come qualcosa che teniamo in tasca, che è utile. Lì vedi l’essenza quasi trascendentale della tecnologia, che pure è nata da noi, dalla nostra mano – che è il nostro primo strumento tecnologico.

E ha incontrato delle difficoltà nel processo di lavorazione?

Devo dire di fondo c’era una ricerca personale, anche di un percorso più libero, artisticamente quindi uscire da certi schemi. Voi conoscete il cinema italiano, molto spesso si è confinati un po’ in certi schemi. Io qui ho avuto una grandissima libertà, un po’ perché sono co-produttore del film, un po’ perché avevo i produttori svizzeri dalla mia parte. Ma il grande scarto che ha avuto il film è stato quando mi sono reso conto che al Cern in realtà non producevano delle vere immagini. Come avete visto c’è volutamente un’alternanza nel film, non si capisce quando è un’immagine del Cern e quando è un’immagine fatta dagli artisti. Ad esempio i tracciati colorati sono immagini prodotte dai rivelatori del Cern. Ma poi ho scoperto che quelle immagini in realtà servono per comunicare al pubblico normale qualcosa di comprensibile, di visibile, ma gli scienziati usano i numeri: dietro ognuno di quelle linee ci sono dei numeri che esprimono il tracciato di quelle particelle. Lì è stato un momento di grande crisi perché mi sono detto: sto facendo un film sull’invisibile, e con quali immagini, se queste linee colorate sono le sole immagini delle particelle prodotte dal Cern? Io che cosa faccio vedere in un’ora e mezza di film? E ho capito che la sceneggiatura che mi era costata tanti studi e preparazione alla fine non mi permetteva di fare il film ma avevo bisogno di qualcos’altro. La comunità del Cern mi aveva ispirato a un’idea diversa dell’essere autore, cioè che l’autore non è necessariamente quello che fa tutto, specialmente nel cinema, ma è anche colui che ha un’idea e mette insieme una squadra, dei talenti di altri artisti. Quindi il fatto di mettere insieme questi dodici artisti è stato qualcosa che non era previsto fin dall’inizio. Il fatto di aver lavorato cinque anni ha fatto sì che il film sia cresciuto grazie agli incontri, al percorso e a questa idea di dire: “Ok chi può visualizzare l’invisibile o l’inimmaginabile? Non è solo che non si vede ma è anche che non sono in grado di rappresentarle queste cose”. Ti dicono: “Noi usiamo le equazioni e le immagini sono fuorvianti per noi”, oppure: “Abbiamo un’immagine ma cosi, latente molto vaga…”. Essendo dei fisici sperimentali o anche dei fisici teorici ma legati a una tradizione sperimentale come quella del Cern, tendono a non approfondire le conseguenze filosofiche delle loro conoscenze.

Il documentario affronta molti temi, qual è quello più importante, rilevante per lei, come regista?

Secondo me l’idea più forte del film è che in questo momento noi non abbiamo un’immagine della natura, la natura visibile è qui sotto i nostri occhi ma questa natura visibile è il risultato di un invisibile che non riusciamo neanche a immaginare. Siamo quindi in un momento, dal punto di vista filosofico, ma anche dal punto di vista se volete esistenziale, in cui non siamo in grado di rappresentarci la natura, il mondo… mentre nella sua storia l’uomo l’ha sempre fatto, magari con rappresentazioni illusorie, magari con racconti religiosi, filosofici, però abbiamo sempre avuto un’immagine di come è fatto l’universo, come è fatta la natura. Qui invece non solo abbiamo l’irrappresentabile della fisica quantistica che dà dei risultati assurdi che non riusciamo a capire, ma anche la consapevolezza che l’universo non è per niente come pensavamo, e addirittura conosciamo solo il 4% all’interno di quello che è visibile. Tutto questo per me ha significato capire che il fascino della scienza non è tanto in quello che sappiamo ma nella coscienza di non sapere.

Il Cern poterebbe diventare un riferimento sociale, culturale, politico?

Questa è una delle cose che mi è più care: io credo che se fosse stato soltanto un film sulla Fisica non mi avrebbe appassionato così tanto. È stato come un cortocircuito, incontrare la scienza fondamentale, che si occupa delle grandi domande che da sempre interessano l’uomo e insieme scoprire la grande comunità del Cern, che dimostra che il mondo è già pronto per questa condivisione senza frontiere, se ci fosse ovviamente non solo la volontà e la passione ma anche una cultura che la rende possibile. Lì incontri fisici di tutto il mondo con diverse tradizioni, diverse lingue, diverse religioni, che però non hanno problemi a condividere il loro lavoro, ma soprattutto hanno una passione e uno scopo. Per fare una macchina così complessa e farla lavorare vuol dire che c’è una totale armonia di scopi, di intenti e loro dicono: “Noi riusciamo a fare questo perché non c’è la politica, non c’è l’interesse personale”. Questa loro risposta poi mi ha spinto a pensare: io conosco un altro mondo che è così, che è il mondo dell’arte, cioè un artista è mosso dalla stessa passione e dallo stesso interesse in qualcosa di astratto che può essere un’idea, un progetto… credo che il successo della collaborazione che c’è dietro e questo film lo dimostri meglio di qualsiasi discorso.

Ecco parlare del film è importante secondo me proprio perché viviamo in un momento di regressione, di gente che propone secessioni, di tornare al dialetto. Questi sono tutti segnali di paura, di chiusura, come dire questo mondo è troppo complesso, guardo indietro invece di guardare avanti. Questo chiaramente sappiamo che per la storia dell’Europa è sempre molto pericoloso: i nazionalismi, i particolarismi sono devastanti proprio perché dettati dalla frustrazione, dalla paura, dalla rabbia. Credo che il film abbia una sua forza politica, nel senso di dire: vedete? È possibile, non dobbiamo guardare con paura alla complessità al futuro, dobbiamo farci i conti, anzi dobbiamo abitarla. Il grande pericolo è che se noi ci ritraiamo da questa complessità e la deleghiamo soltanto a degli specialisti, non sapremo questi specialisti che cosa faranno. Diventeranno un élite probabilmente potentissima che potrebbe essere strumentalizzata dal potente di turno. Abbiamo bisogno di diventare una società che è in grado di capire, di digerire questa complessità, di non sentirsene minacciata, credo che sia un segnale soprattutto per il nostro paese che viene da tanti anni di impoverimento culturale. Credo che l’esperienza del Cern sia un esempio che si può espandere in tanti altri campi. Dobbiamo ripensare al nostro modo di fare arte, di fare cinema, per partire da comunità e non da un isolamento. Questo film è nato dall’incontro di due comunità, quella degli scienziati e quella degli artisti, e credo che questo sia un passaggio necessario, bisogna che l’arte riscopra il suo ruolo nel ricreare un senso di comunità. Credo che per rispondere alla vostra domanda, il Cern sia un esempio che può diventare un riferimento e un’ispirazione in altri ambiti.

In questo documentario è evidente la passione e l’umanità degli scienziati e ci mostra così un’altra faccia della scienza. Ha pensato all’importanza di diffondere questo documentario nelle scuole?

In questo momento stiamo organizzando un gruppo di persone che lavorerà su questo perché ce lo stanno chiedendo molte scuole. E anche perché penso che se io avessi incontrato quegli scienziati quando ero a scuola, se avessi capito che la matematica ha questa bellezza, questa funzione, per me la scuola sarebbe stata diversa. Credo che sia da parte degli studenti che da quella dei professori una frustrazione nel non riuscire a comunicare questo aspetto e gli stessi universitari sono entusiasti perché finalmente trovano un film che in maniera anche emozionale, parla del loro lavoro, li umanizza. Perché non è buono neanche per gli scienziati essere in qualche modo emarginati in un contesto specialistico in cui nessuno capisce cosa fanno.

A me piacerebbe che la gente dicesse: è bello che esista in Europa un centro dove si fa’ scienza pura, senza bisogno di trovare la scusa: “Sì il Cern costa molto però abbiamo fatto cose utili”, perché secondo me questo è già un modo di svilire la nostra grande tradizione scientifica, filosofica.

Quello che l’Europa ha dato al mondo è proprio l’amore per la conoscenza. Come Dante diceva su di Ulisse che si avventura al di là delle colonne d’Ercole, l’uomo Europeo non si affida alle tradizioni ma vuole scoprire l’ignoto e questa è una delle cose importanti che ci contraddistinguono come Europei, dovremmo rivendicarle. Al momento l’Europa è un orizzonte da tenere aperto, ci sono tanti segnali che invece ci vorrebbero ributtare indietro, forze italiane anti-europeiste sono allarmanti perché appunto vogliono catalizzare la paura della gente prospettando soluzioni che sono false in quanto sono semplicistiche, soddisfano la paura del momento.

Nell’opera viene affermato che gli scienziati sono “ministri del dubbio” per questa loro instancabile capacità di mettere tutto in discussione, al contrario di un pensiero dogmatico che non permette alcuna ricerca. Secondo lei la presenza di una cultura cattolica nel nostro paese è responsabile in parte di questo appiattimento culturale?

Molte persone preferiscono avere delle certezze e questo è chiaramente un lascito del cattolicesimo, non dimentichiamo che non solo il libro di Galileo è stato messo all’indice ma anche la Bibbia era all’indice perché poteva essere interpretata solo dalla Chiesa, quindi il buon cattolico non doveva andarsi a leggere la Bibbia da sola. Questa è la grande differenza per esempio tra noi e i protestanti, ed è il motivo per cui siamo indietro culturalmente: c’è una grande fetta di cattolici che hanno mantenuto questa attitudine gregaria rispetto alla conoscenza. Effettivamente, il modello della scienza come si pratica al Cern è un grande modello proprio per questa rivendicazione che tutto può essere messo al vaglio della conoscenza, al vaglio del dubbio e secondo me uno dei momenti più alti del film è quando il grande scultore Gormley dice questa cosa, “Come strumento di misura ci è rimasto il dubbio”. Credo che sia una verità scomoda. Non tutti sono pronti.

La frase di chiusura del film allude al ruolo dei sogni nel processo di conoscenza. Cosa sono per lei i sogni? Allucinazioni o la sede dell’animalità come proposto da Freud? Oppure come un vero e proprio linguaggio possono, non solo essere compresi, ma farci arrivare a una verità più profonda?

È una domanda difficile.. però posso dirti come sono arrivato a quell’ultima scena. Fin dall’inizio c’era quest’idea di finire il film in una caverna, con quelle rappresentazioni… intanto per una sorta di senso di fratellanza con i nostri avi che si erano posti anche loro dei problemi su come è veramente il mondo. L’idea della deprivazione sensoriale, di andare nell’oscurità, nel silenzio, nella caverna, per percepire delle cose che nel mondo non riusciamo a vedere, è in contatto con la dimensione onirica…Probabilmente una delle teorie che più mi ha affascinato sul perché gli uomini preistorici entrassero nelle caverne, è che ci andavano in uno stato particolare, probabilmente generato da droghe, uno stato di coscienza particolare, entravano in trance. Quindi erano in cerca di quell’elemento se vogliamo irrazionale che è anche nei sogni, quell’elemento misterioso che in qualche modo giustifica tutta la nostra vita. Grazie al lavoro su “Il senso della bellezzaho scoperto che la scienza, la vera scienza, non uccide il mistero, non è quella appunto degli esperti che dicono “Abbiamo capito tutto di questa cosa”. No! secondo me la vera scienza è quella che, come per gli scienziati del Cern o di tanti altri, comprende che nel fondo ci sarà sempre un mistero. Possiamo arrivare a un milionesimo di un milionesimo di secondo dal Big Bang, come hanno fatto con gli esperimenti del Cern ma a che cosa c’era prima di quel milionesimo no. Perciò elemento del mistero si ricollega al momento della bellezza. Perché noi percepiamo la bellezza? Cos’è veramente la bellezza? Io non sono d’accordo con gli scienziati che dicono: la bellezza è solo una nostra proiezione. Penso che noi siamo capaci di percepire questa bellezza perché ne siamo profondamente parte. Quindi il sogno in fondo è questo legame misterioso che noi abbiamo con il tutto. Paul Dirac, considerato il più grande fisico del ‘900 dopo Einstein, diceva: “Io tra un’equazione bella e una giusta scelgo sempre quella bella”. C’è qualcosa di misterioso nella bellezza così come c’è qualcosa di misterioso nei sogni. Freud diceva: tu puoi continuare ad analizzare un sogno, ma a un certo punto arrivi a una specie di ombelico dove ti ricolleghi a qualcosa che non ha più a vedere solo con l’individuo che ha sognato, arrivi a qualcosa di più universale, in ultima analisi misterioso. Quindi quando Paul Dirac trova questa equazione che nel film viene tracciata sulla lavagna dal vecchio fisico cinese, quell’equazione che esprime come si muovono gli elettroni intorno a un atomo, lui era attratto dall’enorme bellezza e semplicità di questa equazione. Qualche anno dopo rileggendo l’equazione in un altro modo si rese conto che prediceva l’esistenza dell’antimateria.

Qui tocchiamo un aspetto misterioso della matematica e della conoscenza, per cui poi le intuizioni di Einstein, di Dirac, etc. sono molto simili al sogno del primitivo, partono da un’intuizione, non da un esperimento: l’esperimento arriva dopo, e serve per falsificare o verificare l’ipotesi.

Come se il nostro inconscio fosse più intelligente della nostra coscienza.

, per me questo è sicuro: anche nel fare un film funziona così. A un certo punto mi sono perso, non sapevo più dove stavo andando. Mi guidava il film, e io seguivo quello che succedeva, perché ad un certo punto ti rendi conto che i “suggerimenti” che arrivano da non si sa dove, come una intuizione spontanea, sono molto più profondi e potenti. Se invece pretendi di avere sempre un controllo razionale, non vai da nessuna parte.