Massimo Baldacci è un pedagogista, insegna all’Università di Urbino e coordina il gruppo teorico della Società italiana di pedagogia. Tra i suoi ultimi libri Trattato di pedagogia generale (Carocci, 2012), Per un’idea di scuola (Franco Angeli, 2014) e Oltre la subalternità, praxis e educazione in Gramsci (Carocci, 2017).
Professor Baldacci ci dica il suo giudizio sulla Buona scuola. È da abolire? E perché?
La legge 107/2015 presenta un impianto gravemente riduttivo e unilaterale, le cui direzioni culturali si coglievano in modo trasparente nel Documento iniziale sulla Buona scuola. Non si mira alla formazione completa dell’essere umano come cittadino, produttore e persona autonoma intellettualmente e moralmente. La scuola è vista solo come una fabbrica di produttori equipaggiati di un adeguato capitale umano, e quindi come asservita al sistema economico, anziché diretta allo sviluppo civile e democratico del Paese. Pertanto, la legge 107/2015 non va semplicemente corretta, ma abolita. La Flc Cgil ha fatto bene a provarci, anche se purtroppo non sono state raggiunte le firme sufficienti per il referendum abrogativo.
Cosa pensa delle politiche scolastiche degli ultimi anni? Oltre al taglio di risorse, un fatto evidente, secondo lei è passata una determinata idea di scuola e quale?
Le politiche scolastiche degli ultimi quindici anni sono state improntate a una concezione neoliberista della scuola, di cui i tagli delle risorse sono parte integrante. L’ontologia sociale neoliberista vede non solo il mercato, ma l’intera vita sociale come retta dai meccanismi della competizione. Di conseguenza, il compito della scuola è quello di funzionare come fabbrica di capitale umano (che rappresenta l’arma principale della concorrenza) e come palestra di competizione per i giovani. E lo stesso sistema formativo è visto come un mercato entro il quale gli istituiti scolastici costituiscono aziende in concorrenza tra loro. Il regime di penuria delle risorse creati dai tagli dell’epoca Tremonti-Gelmini rappresenta la premessa per motivare alla competizione. Tutto questo non significa che la scuola militante si sia allineata a questa concezione. Oggi è in corso quella che Gramsci definirebbe come una lotta egemonica che ha per posta il modo di vedere la scuola. La Flc Cgil e le associazioni d’insegnanti d’ispirazione democratica, come l’Mce e il Cidi, conducono attivamente una battaglia culturale contro l’omologazione neoliberista della scuola. Pertanto, la contesa è ancora aperta.
Se in sintesi, dovesse ripercorre il rapporto dei partiti e dei governi con la scuola, dove indicherebbe la crisi? Quando è iniziata la deriva?
Nel nostro Paese, la deriva verso la scuola neoliberista è iniziata agli inizi del nuovo secolo, con l’avvento dei governi di Centro-destra. La Buona scuola rappresenta l’esito di questo processo. Ma la corrente si è creata già negli anni Novanta del secolo scorso, con la resa delle socialdemocrazie europee alle ideologie neoliberiste. Il Rapporto Delors (1996) sulla scuola e l’educazione in Europa, che intendeva elaborare i punti di riferimento culturali per le politiche scolastiche dei Paesi aderenti, rappresentava l’analogo pedagogico della Terza via di Blair-Giddens. L’azione dei governi di Centro-destra si è così innestata su un piano politico-culturale che inclinava già verso esiti neoliberisti. In una prima fase, questo processo è stato presentato (si pensi al periodo dalla Moratti alla Gelmini) come un ritorno a una sana e seria tradizione scolastica, compromessa dalla sinistra, dai sindacati, dalla pedagogia e da Don Milani. Poi, dal Governo Monti a quello di Renzi, la tendenza è diventata eplicita. Non più una deriva, ma una rotta verso le spiagge neoliberiste.
Venendo all’oggi invece, le sembra che le forze politiche, abbiano interesse, naturalmente in senso progressista, alla scuola?
Non è facile stabilire cosa significa un “interesse in senso progressista alla scuola”, ma credo che si potrebbe intendere l’interesse a realizzare seriamente la scuola della Costituzione. A questo proposito, spero nelle forze di sinistra, ovviamente. Al di là della cronica tendenza alla divisione, per le variegate forze di sinistra del nostro Paese la difesa e la realizzazione della Costituzione ha sempre rappresentato un punto importante. Ritengo che ciò debba diventare un riferimento fondamentale anche per la politica scolastica, e mi pare che questa esigenza sia diffusa nella sinistra. Si tratta di elaborarla e tradurla in un orizzonte esplicito e in indicazioni concrete adeguate alla nostra epoca.
Di che cosa ha urgentemente bisogno oggi la scuola italiana per poter raggiungere l’obiettivo dell’unificazione culturale del genere umano, cioè della possibilità del sapere per tutti, di cui parlava Gramsci un secolo fa?
La capacità formativa della scuola, per esprimersi, ha bisogno di un riferimento culturale e valoriale. In questo, Gentile, in fondo, non sbagliava. Ma, com’è noto, egli poneva questo riferimento in termini dogmatici e autoritari, identificandolo nello Stato etico ed esprimendolo nella religione cattolica per la scuola elementare e nella filosofia neoidealistica per il liceo. Per la scuola della Repubblica italiana, il riferimento unitario è rappresentato dal Costituzione, che custodisce i valori laici che debbono informarne tutta la vita sociale. L’unità formativa della scuola può essere conseguita sotto il segno della Carta Costituzionale. E la realizzazione della scuola della Costituzione dovrebbe essere la stella cardinale delle politiche scolastiche. Si tratta di tematizzare il nesso formativo tra istruzione, lavoro e democrazia. E si tratta di fare della scuola non un’azienda che produce capitale umano competitivo, bensì una comunità democratica e pluralista volta a rimuovere gli ostacoli che possono limitare lo sviluppo individuale, garantendo così a tutti i futuri cittadini-lavoratori la piena crescita intellettuale e morale. La loro eguaglianza democratica nella diversità individuale.