Il concetto di razza è bandito dalla Costituzione e dal punto di vista scientifico non ha alcun fondamento tuttavia ci viene continuamente riproposto nel dibattito politico. E l’idea distorta resiste anche al di fuori di ambienti dichiaratamente di destra. Abbiamo chiesto al genetista Guido Barbujani di aiutarci a capire perché

L’esternazione inqualificabile del candidato governatore alla Lombardia per il centro destra, Attilio Fontana, secondo il quale una inesistente razza bianca sarebbe a rischio per una altrettanto inesistente invasione di migranti, non è una voce isolata nel panorama politico italiano. E nemmeno, come afferma Renato Brunetta – altrettanto inqualificabile – «un lapsus». L’idea che esista una razza superiore è radicata nel parlare comune di certa politica e si rivolge al ventre molle del Paese. Quello che non ha mai voluto fare i conti con il fascismo e i suoi crimini contro l’umanità. Un Paese – per intenderci – di cui fa parte, sempre per rimanere all’attualità, anche il renziano Maurizio Sguanci, presidente in quota Partito democratico del Quartiere 1 di Firenze, secondo il quale «nessuno in Italia ha fatto quel che Mussolini è riuscito a fare in 20 anni». In un certo senso Sguanci ha ragione. La miseria culturale e umana prodotta dal Ventennio continua a far danni ancora oggi a 80 anni dalla pubblicazione dell’ignominioso Manifesto della razza e dalla emanazioni delle leggi razziali. 

Come antidoto a questo virus razzista, populista e antiscientifico, pubblichiamo l’intervista al prof. Guido Barbujani, genetista dell’università di Firenze.

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Pensare alla collettività come risultato dell’unione di diversi mondi e culture, dell’incrocio con altre popolazioni fu uno dei punti di forza dell’Impero romano. Vigeva, è noto, lo ius sanguinis, ma il diritto di cittadinanza trasmesso di padre in figlio con il passare del tempo divenne talmente flessibile che anche gli schiavi nell’antica Roma, una volta liberati, potevano diventare cittadini. Flessibilità (mentale) che sembra del tutto mancare in quei partiti che nelle ultime settimane hanno avvelenato il dibattito parlamentare sullo ius soli. A colpi di «Prima gli italiani», «Animali», «Barbari», «Invasione», «Ci rubano il lavoro» la polemica tra fazioni contrapposte è ben presto finita nel pregiudizio, nella xenofobia, nel razzismo manifesto. E lo spettacolo offerto è disgustoso come pochi. Non è mancato il consueto baccano di Forza Nuova che questa volta sarebbe stato esilarante se non ci fosse di mezzo il diritto di oltre 800.000 minori stranieri di diventare cittadini italiani (vedi box a pag. 17). Schierati per lo ius sanguinis, volendo manifestare il proprio disprezzo verso gli immigrati alcuni nostalgici di Mussolini, delle leggi razziali e della Roma imperiale hanno “pensato” di esporre uno striscione che recava la scritta «Italiani si nasce, non si diventa». Che è appunto il principio cardine della legge sullo ius soli in discussione al Senato (vedi box a pagina 9) da loro stessi avversata con virile fierezza.

Fatto sta che il concetto di razza applicato alla specie umana continua a resistere e ad essere espresso più o meno manifestamente dentro e fuori dal Parlamento nonostante sia stato superato dalla storia e smentito dall’evidenza scientifica. Come mai? Per provare a dare una risposta abbiamo girato il quesito a Guido Barbujani. Docente di genetica all’Università di Ferrara, Barbujani si occupa delle origini e dell’evoluzione della popolazione umana e ha pubblicato numerosi saggi fra cui L’invenzione delle razze (Bompiani 2006), Europei senza se e senza ma (Bompiani 2008), Lascia stare i santi (Einaudi 2014) e Contro il razzismo (Einaudi, 2016).

«Bisogna per prima cosa stare attenti a non fare confusione» dice a Left. «La parola razza ha tantissimi significati. Ne ha troppi. Tutti ricordiamo la famosa frase pronunciata da Einstein quando dovette compilare il modulo di ingresso negli Usa. Alla domanda “di che razza sei?”, lui rispose “razza umana”. Dietro questa parola ci sono 7mld di persone. Ma c’è chi parla di razza nera, bianca, gialla, come sottoinsiemi di questi 7mld. E quando qualcuno qui da noi parla di “razza piave” o di “razza padana” si riferisce a un sottoinsieme ancora più piccolo». “Razza” può avere una valenza positiva o negativa, prosegue Barbujani: «”Attaccante di razza” vuol dire che è un vero bomber ma “razza di idiota” non è un gran complimento. Questa vaghezza del termine ci condanna spesso a discussioni inconcludenti. Se le persone che discutono usano la stessa parola per indicare oggetti differenti, difficilmente potranno intendersi».

Qual è secondo lei il nesso tra razza e razzismo?
Il collegamento tra queste due parole è solo etimologico. Non c’è bisogno di credere all’esistenza delle razze umane per avere delle posizioni esplicitamente razziste. Se io ti dico che questa cosa non la puoi fare perché sei negro, oppure perché sei immigrato, si tratta di due affermazioni assolutamente equivalenti. La prima fa riferimento al concetto di razza, la seconda no. Ma sono la stessa cosa. Per questo penso che il dibattito, a cominciare da quello politico, debba focalizzarsi sull’aspetto dei diritti delle persone più che sui dati biologici.

Cosa dicono i dati biologici?
Sono inequivocabili. Nessuno è mai riuscito a fare il catalogo delle razze umane. Nel senso che lo hanno fatto in tanti ma ognuno ha fatto un catalogo diverso dagli altri. Oggi studiando il Dna vediamo che siamo pieni di “tracce” che vengono dall’Africa e dall’Asia, e che le differenze genetiche tra due esseri umani di due continenti diversi sono nell’ordine l’uno per mille. Sono cioè molto minori di quelle che troviamo tra due gorilla e due scimpanzé. Segno che tutti gli esseri umani appartengono alla stessa famiglia che nel giro di pochi millenni è arrivata a 7mld di individui».

Quindi il concetto di razza dal punto di vista scientifico non funziona?
Non funziona e chi si occupa di antropologia e di biologia umana lo ha capito perfettamente tuttavia ci sono dei paradossi significativi.

Per esempio?
Soprattutto nella ricerca clinica statunitense è ancora fortissimo. L’idea diffusa negli Usa è che se un medico tiene conto della tua razza è in grado di proporti terapie e farmaci più adatti alle tue caratteristiche genetiche. Ma è un’idea priva di basi scientifiche. Non esiste un solo dato che confermi che gli asiatici o i neri o gli ispanici, come li chiamano loro, abbiano una risposta diversa, per dire, alla tachipirina rispetto ai bianchi. Tenga presente che la “loro” categoria degli ispanici comprende da Borges a Teofilo Stevenson, il pugile cubano di origine africane che vinse tre ori alle Olimpiadi.

Possiamo approfondire questo punto?
Ovviamente ci sono delle differenze, ma ci sono anche tra me e lei, ci sono tra bianchi, tra neri, tra asiatici e sono grandi quanto quelle che si riscontrano tra gruppi diversi. Quindi a lei la tachipirina può dare sollievo e a me no. Se lei prende per strada dieci persone che camminano sul marciapiede di dx e altrettante su quello di sx e studia una bella porzione di Dna alla fine troverà delle differenze. Perché siamo tutti diversi. Tuttavia sono differenze che non hanno alcun significato. Il Dna non dice se uno sceglierà di camminare a destra o a sinistra. È così, le differenze ci sono sempre. Ma di questo, negli studi clinici Usa, spesso non ne tengono conto. Con il risultato che la farmacologia razziale sta avendo molto successo soprattutto tra i neri. Perché avvertono che finalmente si tiene conto della loro identità e quindi si sentono più tutelati da questa forma di medicina che dal punto di vista scientifico non sta in piedi.

C’è quindi anche un inquietante risvolto sociale.
Bisogna tener presente che negli Usa il concetto di appartenenza a una razza viene inculcato ai bambini sin dai primissimi anni di scuola. Anche a loro, oggi, come ad Einstein, allora, viene chiesto di che razza sono. E se appartengono a una di quelle svantaggiate, cioè sono neri o ispanici, possono avere delle agevolazioni. Per esempio pagano meno tasse, oppure hanno diritto a dei sussidi per accedere a determinate scuole. Poiché chi va nelle scuole migliori ha più probabilità di andare a un’università migliore e chi esce da una buona università ha più chance di trovare un buon lavoro, ecco che tutti questi “vantaggi” rafforzano l’identità razziale. Trasformare le differenze individuali in differenze razziali non funziona. È scientificamente provato. Però è un messaggio che si vende bene, ispira fiducia: tu sei ispanico e io so come si trattano gli ispanici. In un Paese dove le identità razziali sono molto profonde ecco che anche questo messaggio scientificamente insignificante passa.

E in Italia come siamo messi?
L’idea di identità razziale sta riprendendo piede sulla base di un dato di fatto che non è genetico ma epidemiologico. Con l’immigrazione stanno arrivando persone con malattie che da noi non si conoscevano più. Per esempio la tubercolosi. Chi viene da un Paese in cui la sanità non è efficiente può essere più facilmente esposto a malattie che da noi sono scomparse, ma è inaccettabile che con questo si cerchi di veicolare l’idea che certi gruppi etnici, certe popolazioni portino con sé patologie particolari. È un concetto sbagliato, che rischia di fare presa.

Dal punto di vista scientifico quando è stato superato il concetto di razza umana?
Dipende da come lo consideriamo. Se guardiamo alla produzione continua di studi clinici che ancora lo usano possiamo dire che non è mai stato superato. Invece, dal punto di vista di chi si occupa dell’evoluzione delle popolazioni, della biodiversità umana e quindi del tema in sé e per sé, a partire dagli anni 90 del secolo scorso è risultato evidentissimo – anche da una serie di studi di Luca Cavalli Sforza con cui ho collaborato – che non è possibile definire dei gruppi umani biologicamente differenti.

Detto questo non sarebbe il caso di eliminare la parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione?
Terracini, La Pira e tutti coloro che collaborarono alla stesura dell’articolo 3 non avevano in testa il dibattito biologico di cui abbiamo parlato ma il ricordo delle leggi razziali di Mussolini. E quindi hanno pensato a un testo che, dall’entrata in vigore della Carta, impedisse di discriminare le persone sulla base di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Così in Italia una persona può essere giudicata per quello che fa non per quello che è. Questo è il messaggio dei costituenti e in questo caso il concetto di razza biologica non c’entra. Anzi è del tutto rifiutato. C’è una frase alla quale praticamente non facciamo più caso perché l’abbiamo letta mille volte: la legge è uguale per tutti. Spiega bene la ratio che c’è dietro il primo comma dell’articolo 3 e ci dice anche che un’affermazione come quella di Debora Serracchiani (“un reato è più grave se commesso da un immigrato”) nell’Italia del dopoguerra, nelle intenzioni dei costituenti, non avrebbe più dovuto avere diritto di cittadinanza.

L’intervista al genetista Barbujani è tratta da Left n. 26 1 luglio 2017


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Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).