A sette anni dalla Rivolta dei gelsomini i giovani tunisini sono tornati in piazza. «Lavoro», «libertà», «dignità nazionale» sono le parole d’ordine. Eppure hanno scatenato la reazione violenta del governo incapace di portare il Paese fuori dalla crisi economica e di soddisfare le richieste di giustizia sociale

Siamo ancora senza lavoro, questa è la Tunisia dopo sette anni. Tutto questo è profondamente triste». Non si dà pace Amel Berrejab che da anni cerca invano di trovare un impiego in una scuola pubblica. «C’è solo povertà – le ha fatto eco Rashida Gheriani, attivista di sinistra del Fronte Popolare -. Niente è cambiato dal 2011. La nostra rivoluzione è stata rubata, il popolo non ha guadagnato nulla. La vita delle persone è peggiorata». Parole che raccontano bene il senso di profonda disillusione, sconforto, frustrazione e rabbia che regnano ormai nella Tunisia attuale. Amel e Rashida erano tra le migliaia di persone che la scorsa domenica hanno sfilato nella centralissima Avenue Bourghiba di Tunisi in occasione del settimo anniversario della caduta del presidente dittatore Zine Ben Alì. «Lavoro, libertà e dignità nazionale», hanno gridato i dimostranti incuranti del massiccio schieramento di polizia. «Il popolo vuole la caduta del budget» hanno poi scandito riferendosi alla Finanziaria “lacrime e sangue” del 2018 che ha imposto misure di austerity draconiane e ha innalzato i prezzi dei beni di prima necessità per rispettare i diktat imposti dal Fondo monetario internazionale in cambio del suo prestito di dicembre di 2,9 miliardi di dollari.

Una manovra durissima che ha causato, a partire dallo scorso 8 gennaio, proteste e scontri con le forze di sicurezza in tutto il Paese: pneumatici dati alle fiamme, gas lacrimogeni lanciati dalla polizia hanno scandito le giornate tunisine. Il bilancio provvisorio fornito dal ministero degli Interni parla di quasi 800 arrestati, decine di feriti, un manifestante morto in circostanze sospette (a Tebourba, nord di Tunisi). La risposta del governo, formato dall’alleanza di convenienza tra i “laici” di Nidaa Tounes e gli islamisti di an-Nahdha, è stata inizialmente sprezzante. «Le persone devono capire che la situazione è straordinaria e che il loro Paese ha sì difficoltà, ma credo anche che questo sarà l’ultimo anno di sacrifici per il nostro popolo» ha detto il premier tunisino Yousef Chahed. «Queste proteste – ha poi aggiunto – non hanno alcun legame con la democrazia o contro il caro vita. I manifestanti hanno dato fuoco a due stazioni della polizia, saccheggiato negozi, banche e danneggiato proprietà pubbliche in molte città».

Sul banco degli imputati, secondo l’esecutivo, ci sarebbe…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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