«Quando la Gran Bretagna finalmente ci restituirà i manufatti illegalmente depredati?». È la domanda poco ortodossa avanzata, via Wechat, dal rinomato think tank China centre for international economic exchanges alla vigilia della visita dell’ex premier britannico David Cameron oltre la Muraglia nel dicembre 2013. Il saccheggio perpetrato dall’Alleanza delle otto nazioni ai danni della Città proibita e del Palazzo d’estate con lo scopo conclamato di sedare la rivolta anticoloniale dei Boxer ha lasciato una cicatrice profonda nell’orgoglio cinese. A distanza di oltre un secolo, gli eventi tragici vissuti da quella che allora veniva considerata la “malata d’Asia” vengono declinati al perseguimento della «grande rinascita nazionale» invocata dal presidente Xi Jinping nel 2012, un paio di settimane dopo aver assunto l’incarico di segretario generale del Partito comunista, nel luogo che meglio sintetizza il glorioso passato cinese offuscato dagli anni dell’umiliazione occidentale: il Museo nazionale di piazza Tian’anmen.
Dando per buone le stime riportate dalla stampa ufficiale, 1,64 milioni di pezzi storici si trovano attualmente sparpagliati in 200 musei di 47 Paesi diversi, di cui 23mila soltanto presso il British museum di Londra. Cifre che la China cultural relics academy porta a 10 milioni se si considerano le collezioni private. Ma mentre ogni ottobre Pechino ricorda l’anniversario dell’invasione del Palazzo d’Estate rivendicando urbi et orbi quanto le sia dovuto, questo tuttavia non ha impedito alla conservazione dei beni storico-artistici di diventare silenziosamente laboratorio di scambio tra il gigante asiatico e il resto del mondo. Dal 2014, Cina e Stati Uniti lavorano in tandem per il rimpatrio dei cimeli trafugati sulla base di un memorandum d’intesa culminato un anno più tardi nella restituzione di 22 pezzi, tra cui 17 dischi di giada. Un evento celebrato con tanto di cerimonia presso l’ambasciata cinese di Washington.
D’altronde, se gli studi archeologici hanno raggiunto la Muraglia è proprio grazie a…