Pechino ha imposto il mandarino standard come idioma ufficiale con l’obiettivo di preservare l’identità nazionale. Spazzando via le lingue delle minoranze. E per colpa di computer e cellulari molti cinesi hanno difficoltà a scrivere a mano un ideogramma

«Hanzi bu mie, Zhongguo bi wang» (Se i caratteri cinesi non spariscono, la Cina perirà). Con queste parole il padre della letteratura cinese moderna, Lu Xun, attribuiva l’alto tasso di analfabetismo e l’arretratezza del Paese alla complessità della sua scrittura. Erano gli anni in cui l’ex Celeste impero usciva sconfitto da un primo esperimento repubblicano e dalle ripetute umiliazioni internazionali culminate nel Trattato di Versailles (1919). Già assediata dalla spinta riformista di età tardo-imperiale, la cultura tradizionale cinese fu travolta dal fervore progressista divampato negli ambienti accademici e letterari “borghesi”. Una volta fatta a pezzi l’immagine di Confucio, il Movimento di nuova cultura bersagliò la lingua con proposte che spaziavano dalla promozione di una variante vernacolare fino all’adozione dell’inglese e dell’esperanto in sostituzione degli ideogrammi. Da allora la sperimentazione linguistica è proseguita senza sosta sino all’assunzione nel 1956 dei caratteri semplificati (ancora utilizzati nella Cina continentale), seguita due anni dopo dall’introduzione del sistema di romanizzazione (pinyin). Ciò che oggi permette a ogni cinese di scrivere al pc semplicemente digitando le lettere dell’alfabeto sulla tastiera.

Circa dieci anni dopo, con la standardizzazione di 6.196 ideogrammi, la commissione statale per la Riforma della lingua metteva fine alla “fase creativa” inaugurando un periodo di più stringenti regolamentazioni: sì al putonghua (il mandarino standard di Pechino) no all’utilizzo di dialetti nei film e sui mass media. Con il risultato che la vittoria dell’idioma ufficiale si è tradotta nella condanna a morte delle oltre 100 lingue parlate dalle innumerevoli minoranze etniche residenti nella Repubblica popolare. Perché uniformare la lingua vuol dire anche e soprattutto preservare l’identità nazionale (specie nelle aree periferiche del Paese poco permeabili alle politiche centrali) e riaffermare quella “cinesità” insuperbita dalla rapida ascesa economica del gigante asiatico sullo scacchiere internazionale. A distanza di un secolo, Confucio è di nuovo riabilitato e non si parla più di…

Sul rapporto tra scrittura e potere in Cina, su Left del 23 febbraio, potete leggere un approfondimento del sinologo Federico Masini

L’articolo di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola


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