«Il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee». Con queste parole si apre l'appello indirizzato all'esecutivo (qui il testo completo), affinchè la riforma dell'ordinamento penitenziario venga portata a termine. Dopo la presentazione dei decreti attuativi da parte del Consiglio dei ministri a dicembre, in seguito al pressing del ministro Orlando, e il vaglio delle camere che hanno presentato le loro osservazioni, la palla era tornata a Palazzo Chigi, ma il 22 febbraio scorso il governo ha deciso di licenziare in via definitiva solo tre decreti, quelli su giustizia riparativa, mediazione tra reo e vittima, e giustizia minorile. Una rivoluzione incompiuta, dunque (come abbiamo raccontato sul nostro settimanale, in un numero interamente dedicato a carcere e diritti umani). Tra i firmatari del testo appello: l'Unione Camere penali italiane, il Consiglio nazionale forense, Magistratura democratica, Antigone. E poi personalità, tra le quali, Edmondo Bruti Liberati, Carlo Federico Grosso, Franco Lorenzoni, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Mauro Palma, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky. Formalmente, anche se le elezioni hanno fortemente modificato gli equilibri parlamentari, il governo Gentiloni è in carica sino al 23 marzo, e potrebbe dunque portare a termine il lavoro iniziato con gli Stati generali sull'esecuzione della pena, istituiti nel 2015 per strutturare le proposte su cui basare la riforma. «Si è sprecata un'occasione storica per riformare le carceri italiane - aveva commentato il presidente della associazione Antigone Patrizio Gonnella il 22 febbraio -. La legge che le governa risale al lontano 1975. Il Consiglio dei Ministri di stamattina poteva adeguarla alle esigenze del mondo attuale. Poteva allargare il campo delle misure alternative alla detenzione, la cui capacità di ridurre la recidiva e dunque di garantire maggiore sicurezza ai cittadini è ampiamente dimostrata. Poteva avvicinare la vita penitenziaria a quella esterna, come tutti gli organismi internazionali sui diritti umani raccomandano di fare. Poteva garantire una maggiore tutela del diritto alla salute fisica e psichica. Ha invece preferito farsi spaventare dall'avvicinarsi dell'appuntamento elettorale piuttosto che pensare alla tutela dei diritti dei detenuti». Ora il governo ha una ultima possibilità. Gentiloni e Orlando rispetteranno la parola data?  

«Il cammino della riforma contenuta nello schema di decreto legislativo adottato il 22 dicembre 2017 rischia di avere una definitiva battuta di arresto. Ci rivolgiamo con forza al governo perché, mantenendo fede all’impegno assunto ed esercitando almeno nella sua parte fondamentale la delega conferita con la legge n. 103/17 votata dal Parlamento, approvi in via definitiva, pur dopo le elezioni politiche, la riforma dell’ordinamento penitenziario, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee».

Con queste parole si apre l’appello indirizzato all’esecutivo (qui il testo completo), affinchè la riforma dell’ordinamento penitenziario venga portata a termine. Dopo la presentazione dei decreti attuativi da parte del Consiglio dei ministri a dicembre, in seguito al pressing del ministro Orlando, e il vaglio delle camere che hanno presentato le loro osservazioni, la palla era tornata a Palazzo Chigi, ma il 22 febbraio scorso il governo ha deciso di licenziare in via definitiva solo tre decreti, quelli su giustizia riparativa, mediazione tra reo e vittima, e giustizia minorile. Una rivoluzione incompiuta, dunque (come abbiamo raccontato sul nostro settimanale, in un numero interamente dedicato a carcere e diritti umani).

Tra i firmatari del testo appello: l’Unione Camere penali italiane, il Consiglio nazionale forense, Magistratura democratica, Antigone. E poi personalità, tra le quali, Edmondo Bruti Liberati, Carlo Federico Grosso, Franco Lorenzoni, Tomaso Montanari, Valerio Onida, Mauro Palma, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky.

Formalmente, anche se le elezioni hanno fortemente modificato gli equilibri parlamentari, il governo Gentiloni è in carica sino al 23 marzo, e potrebbe dunque portare a termine il lavoro iniziato con gli Stati generali sull’esecuzione della pena, istituiti nel 2015 per strutturare le proposte su cui basare la riforma.

«Si è sprecata un’occasione storica per riformare le carceri italiane – aveva commentato il presidente della associazione Antigone Patrizio Gonnella il 22 febbraio -. La legge che le governa risale al lontano 1975. Il Consiglio dei Ministri di stamattina poteva adeguarla alle esigenze del mondo attuale. Poteva allargare il campo delle misure alternative alla detenzione, la cui capacità di ridurre la recidiva e dunque di garantire maggiore sicurezza ai cittadini è ampiamente dimostrata. Poteva avvicinare la vita penitenziaria a quella esterna, come tutti gli organismi internazionali sui diritti umani raccomandano di fare. Poteva garantire una maggiore tutela del diritto alla salute fisica e psichica. Ha invece preferito farsi spaventare dall’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale piuttosto che pensare alla tutela dei diritti dei detenuti».

Ora il governo ha una ultima possibilità. Gentiloni e Orlando rispetteranno la parola data?