La deriva che scaturisce dal sistema di valutazione introdotto con la Buona scuola non viene percepita. Manca una riflessione generale. Eppure basterebbe ascoltare di più gli insegnanti. Parlano un docente universitario e una dirigente scolastica della scuola primaria

Il caso recente del liceo classico più antico della Capitale che nel proprio rapporto di autovalutazione – il Rav, una sorta di vetrina online – riporta come nota di merito il fatto di non avere studenti stranieri, disabili e provenienti da famiglie svantaggiate, ha provocato sollevazioni in rete, sit-in davanti alla scuola, con la ministra Fedeli indignata che ha promesso ispezioni. Ma il problema rimane. E non si può risolvere scrivendo il Rav in modo politically correct. Il problema è il fatto stesso che esiste il Rav, così come esiste il sistema di valutazione Invalsi che l’ha elaborato, e quell’insieme di certificazioni, moduli, quiz che misurano competenze e stabiliscono graduatorie, fotografando un frammento della vita della scuola e dello studente senza seguire a pieno un processo delicato e in movimento come quello educativo. Se poi a questo aggiungiamo i bonus merito per gli insegnanti o il fatto che l’alternanza scuola lavoro ormai è codificata con tanto di tutor professionisti dell’Anpal, è chiaro che il problema è uno solo: la scuola sta diventando una specie di impresa con il preside manager e il suo staff che compila il Rav e mette in competizione l’istituto con altri per accaparrarsi le iscrizioni e quindi i fondi per sopravvivere. «Marketing scolastico» l’ha definito Alberto Baccini, docente di Economia politica all’università di Siena in un suo articolo sulla rivista Il Mulino.

In questi ultimi mesi è stato depositato in Cassazione un nuovo testo di legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione, mentre un appello per la scuola pubblica sottoscritto da 10mila persone chiede di rimettere in discussione tutto l’impianto della legge 107, la “Buona scuola”. Ma la deriva aziendalistica dell’istruzione pubblica è stato un tema pressoché ignorato dalla campagna elettorale, anche se nei programmi di Leu e Potere al popolo figura l’abolizione della Buona scuola. E così non si comprende il significato profondo della valutazione, che costituisce l’ossatura della formazione di stampo aziendalistico.

«Io studio i sistemi di valutazione dell’università dell’Anvur, ma la logica è perfettamente identica all’Invalsi, con le stesse matrici culturali, lo stesso modo di vedere il mondo», dice il professor Baccini che è anche uno dei fondatori di Roars, il sito-associazione che si occupa di ricerca e formazione. Cosa c’è dunque dietro il mondo Invalsi? «C’è il principio che le scuole servono a creare capitale umano, un concetto che nasce negli anni 60 con Gary Becker». L’economista cui fa riferimento Baccini è stato premiato con il Nobel nel 1992 per aver esteso l’analisi microeconomica ai comportamenti e alle relazioni umane. Becker, per intenderci, è lo stesso che non esitava a considerare i figli «un bene durevole, sia produttivo che di consumo». In un tipo di scuola che si rifà al “capitale umano”, continua Baccini «tutto ciò che è formazione, cittadinanza, diritti, tutto il bagaglio cioè legato all’idea di istruzione dalla rivoluzione francese in poi, viene buttato via». Nell’università questo aspetto è ancora più accentuato ma anche la guerra al liceo classico “inutile” alla fine nasce dall’impostazione economicistica. «Non interessa la formazione del cittadino o il sapere critico, ma la formazione di manodopera». Dal punto di vista dell’economia esiste tutta una letteratura sul new public management secondo cui la spesa pubblica deve essere gestita come dentro un’impresa e nel mercato, per cui «le scuole devono funzionare più o meno come imprese che sfornano un prodotto particolare». Tra i politici, è stata la Thatcher a imprimere la svolta, soprattutto per l’università. In Italia a dare la linea, per così dire, all’Invalsi e all’allora ministra Gelmini, è stata la triade Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini, che a dicembre 2008 stila un documento sul “sistema di misurazione degli apprendimenti”. «L’idea di fondo, siccome non ci si può fidare degli insegnanti, è quella di mettere in piedi un’agenzia esterna completamente autonoma che faccia le valutazioni, bypassando gli stessi insegnanti», spiega Baccini.

Già, proprio gli insegnanti. Su questo versante un effetto particolarmente negativo si ha nella scuola primaria, dove da quest’anno viene introdotta per la prima volta la prova Invalsi di inglese. È critica Concetta Messina, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Parco di Veio di Roma con un’attività intensa di formatrice. «L’Invalsi è un sistema standardizzato che va in direzione inversa rispetto al percorso pedagogico italiano che si basa sulla individualizzazione dell’insegnamento», premette. La conseguenza? «Con le prove Invalsi che, ripeto, riguardano “quei” test, si arriva a valutare la qualità stessa della scuola, facendo un’equazione sbagliata». E non è vero poi che questo sistema porti a un miglioramento dell’apprendimento. «Ha messo ancora di più in crisi gli insegnanti, anche quelli che hanno sempre lavorato bene. E sono prove difficili per i bambini». Concetta Messina spiega: «Seguendo le classi seconda e quinta, ho assistito a degli strafalcioni: testi di italiano inseriti nella prova di seconda, e che abbiamo ritrovato in un’antologia di quarta, con bambini di 7 anni che hanno cominciato a leggere da un anno alle prese con due pagine di testo e grandi difficoltà interne. Voglio essere equilibrata, forse questi test hanno fatto scattare un campanello d’allarme sulla lettura, sul lessico, sulla logica interna, i sensi figurati ecc, ma si poteva fare diversamente e non in questo modo invasivo, pervasivo e violento». Messina lamenta l’assenza di confronto con la scuola: «l’Invalsi si è imposto senza nessuna attenzione rispetto alle esigenze di insegnanti e studenti».

Sulla valutazione occorrerà un’analisi approfondita e chissà se il futuro governo lo farà. Si tratta di ribaltare un determinato pensiero sull’istruzione. Le soluzioni però ci sarebbero. «Andrebbe abolita la parola valutazione, ma questo non significa che non si debba fare qualcosa», sottolinea Baccini che propone «un osservatorio sul funzionamento di scuole e università, in mano a persone scientificamente competenti che faranno quelle osservazioni di cui si servirà la politica». Stesso concetto, calato nella scuola primaria: «La valutazione deve essere formativa, non sommativa – conclude Concetta Messina -, deve comprendere il percorso per vedere se si deve rettificare qualcosa che ho già fatto, affinché sia indicativa di un miglioramento, altrimenti non ha senso».

L’articolo di Donatella Coccoli è tratto da Left n. 9 del 2 marzo 2018


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