Il musicista, direttore artistico della festa dell'Uno maggio nella città dell'Ilva, racconta come si vive nella «monocultura dell'acciaio». E intanto parte il suo tour

Tra gli artisti più interessanti del panorama musicale italiano spicca un cantautore che, fin dai suoi esordi, si contraddistingue per spontaneità e versatilità. Di recente, lo abbiamo apprezzato al Festival della canzone italiana al fianco di Roy Paci. Antonio Diodato, solo Diodato come artista, nato ad Aosta, trasferitosi poi a Taranto, dopo una breve fuga in Nord Europa, studia e vive a Roma, poi va a Milano. Tre album al suo attivo, dai titoli evocativi: E forse sono pazzo, A ritrovar bellezza, Cosa siamo diventati. Tanti singoli, come il recente “Cretino che sei”, o lo stesso pezzo sanremese: estemporanee messe a fuoco di un suo vivere il presente, personale o professionale che sia. Che sia una ballata, un pezzo pop (“Babilonia”, “Ubriaco”), un altro più sottolineato dalla musica elettronica, o che ammicca alla dance, l’artista da sempre sperimenta, incontra colleghi, allaccia collaborazioni e rivisita pezzi magistrali del passato, come “Amore che vieni, amore che vai” in chiave rock, con cui ha vinto nel 2014, appunto, il Premio De André. Sempre in quell’anno ha vinto l’Mtv Italia Award, nella categoria “Best New Generation”, con il brano “Se solo avessi un altro”. Da tre anni è direttore artistico dell’“Uno maggio”, la festa tarantina del giorno dedicato ai lavoratori, che dal 2013 è attenta alle popolazioni del Sud, comunicando tutto ciò che non va da quelle parti, a iniziare dall’Ilva. Ironico, riflessivo, incline a sperimentare cose nuove, ma sempre attento al mondo che lo circonda, l’artista “nomade”, come si definisce lui, è nel bel mezzo di un tour: da Bolzano, a Treviso, Milano, Roma (il 7 aprile). Diodato ci racconta di sé, di quello che cerca nella musica, del suo passato, della sua terra, dei cambiamenti, ammettendo «Ho bisogno di sbilanciarmi per rimettermi in moto».

Nel gennaio 2017 usciva Cosa siamo diventati, poi, dopo un anno, Sanremo con “Adesso”: come mai ti è venuta voglia di esibirti all’Ariston?
Quando ho scritto il brano, Sanremo non era nei miei pensieri, anzi stavo programmando altre cose. Mi ero però reso conto che un arrangiamento di fiati ci sarebbe stato bene, ovviamente per collaborazioni passate e stima artistica, ho sentito Roy (che stimo molto!), abbiamo ragionato sull’arrangiamento e abbiamo pensato a questa possibilità, al fatto che potesse essere una cosa bella e divertente. Infatti, ci siamo divertiti.

Il brano è una sorta di grido, di esortazione, grazie anche a un crescendo musicale: qual è il messaggio?
È una riflessione sui timori, sulle paure, che non ci permettono di vivere pienamente la vita. Come la paura del futuro o uno sguardo sempre proiettato al passato che non ti fa essere presente a te stesso. Mi viene in mente quella famosa frase di John Lennon, che dice «La vita è ciò che ti accade quando sei intento a fare altri piani», è la considerazione del vivere l’adesso perché il futuro e il passato sono nostre proiezioni. Volevo solo ricordare a me stesso, ed è il motivo per cui lo ripeto, anche in maniera ossessiva all’interno del brano, che tutti i momenti migliori sono sempre arrivati anche da momenti molto semplici però vissuti pienamente.

Però, è una situazione abbastanza comune…
Infatti, la mia è una considerazione personale che può essere facilmente allargata alla società. In questo periodo siamo distratti, siamo bombardati anzi, dalle informazioni. La tecnologia non ci aiuta molto a essere, uso in termine tecnologico, “connessi” con il nostro presente, veniamo distratti. Ma questo non è un brano contro la tecnologia o contro i social, come qualcuno ha detto, anzi, riconosco delle grandi potenzialità in questi mezzi, che ti permettono anche di raccontarti e anche, volendo, di rimanere in contatto, ma a volte se ne fa un uso malato. Dobbiamo educarci a un utilizzo più consapevole.

Nella tua discografia alterni generi, stili, oppure ti presti a collaborazioni con illustri colleghi o rivisiti brani di grandi autori, tra cui De Andrè, ma anche “Piove” di Modugno. Che tipo di ricerca porti avanti? 
Mi sono reso conto che, in primis, voglio sempre farmi rappresentare il più possibile dalla mia musica. Ci tengo a raccontare un po’ tutto: il mio aspetto più cinico e disincantato, anche quello passionale, perché sono tutti aspetti che fanno parte di me, del mio approccio alle cose. Voglio che la musica rispecchi questa mia anima; da sempre, cerco di non levigare gli spigoli, di essere il più sincero possibile, che a volte può spiazzare l’ascoltatore, che ti sente prima in un modo poi in un altro, però siamo un po’ tutti fatti così, non siamo una cosa sola. Devo dire che le collaborazioni, gli incontri sono incontri umani con l’altra persona che è lo stimolo, il motore principale che ti permette di scoprire anche qualcosa di te stesso. Io parlo sempre di una messa a fuoco, di un’analisi costante: utilizzo la musica per imparare a conoscermi meglio.

Tu sei vissuto a Taranto, città martoriata dall’inquinamento e dal problema dell’Ilva, e proprio lì sei tra i promotori della manifestazione musicale dell’ “Uno Maggio”, della quale sei direttore artistico da tre anni.
Questa manifestazione è un piccolo grande miracolo che si è realizzato: partivamo dal nulla, dal sogno di poter portare una manifestazione così importante in una città come Taranto. Soprattutto, si partiva dal fatto che non avevamo nessun tipo di appoggio politico, di sindacato, di lobby, ma solo il coinvolgimento umano di artisti e della popolazione. Negli anni è stato fatto un lavoro importante, cercando di dare in mano alle persone un grande megafono per poter denunciare delle situazioni insostenibili e inaccettabili per un Paese come il nostro. Questo grande megafono è stato fornito dalla musica, che porta poi un’attenzione mediatica nella città di Taranto, dando visibilità a tante altre realtà come i No Tav, No Triv o per denunciare cosa accadeva nella cosiddetta Terra dei fuochi.

In che condizioni versa la città per la presenza dell’acciaieria?
È una città in cui tutto è stato studiato con molta attenzione perché noi tarantini (io mi considero a tutti gli effetti tarantino perché lì ho fatto le scuole, fino alle superiori, che poi sono quelle che ti formano) cresciamo con questa monocultura dell’acciaio. Dico che è stata creata la non alternativa, un vero e proprio ricatto occupazionale, che non ti facesse più pensare al fatto che tu andassi lì a morire o a uccidere, con il tuo lavoro, una città intera, generazioni intere, ma fossi costretto a pensare che quella era l’unica possibilità. Parliamo di migliaia di morti, di una catastrofe vera e propria! A malincuore, dovevi andare a lavorare per permettere ai tuoi figli di vivere in maniera dignitosa; in realtà, quel lavoro stava uccidendo anche il futuro, proprio inteso a tutti gli effetti perché tanti bambini si ammalano e muoiono. Loro sono i più colpiti da questo disastro.

Quali sono gli sforzi fatti per sostenere la causa del risanamento ambientale?
Devo dire che l’“Uno Maggio”, in qualche modo, è uno sguardo nuovo, è voler mostrare a una città e a una popolazione che un’alternativa è possibile, che una città così bella può accendersi e vivere di altro, ed è quello che è successo. Quest’anno c’è stato un boom turistico, e un po’ è dovuto a quello che stiamo facendo in questi anni. La manifestazione, infatti, porta tanta gente che non è tarantina e la gente si rende conto degli aspetti positivi, delle potenzialità della città, così ci torna d’estate. Ti rendi conto che c’è un mare caraibico, anzi – sorride – pugliese.

A 18 anni sei andato a Stoccolma. Che cosa ti ha dato quell’esperienza?
Un giorno sono partito per andare a trovare amici musicisti in Svezia. Sono  tornato dopo aver imparato tanto da loro, che lavoravano per ore ed ore, assiduamente e con una passione incredibile. Sto parlando di Sebastian Ingrosso e Steve Angello, che poi hanno riscritto la storia della dance mondiale. È stato un grande insegnamento vederli lavorare incendiati dalla loro passione. Sono tornato in Italia convinto di ciò che volevo fare nella mia vita, ho imparato una lezione importante. Ammetto poi che sono anche Paesi, quelli del Nord Europa, che ti permettono di fare l’artista e non di vergognarti di seguire le tue passioni. In Italia un artista è visto ancora come un sognatore, come chi non ha voglia di lavorare, non come un valore importante, una spinta per la società.

Stai pensando al prossimo disco?
Mi sto divertendo molto, e qui torniamo al lato positivo della tecnologia, che ti permette di raccontarti immediatamente. Ho fatto uscire pochi mesi fa un singolo che si intitolava “Cretino che sei”, che raccontava esattamente ciò che stavo vivendo in quel momento lì. Stessa cosa è accaduto con “Adesso”. Questa idea di far uscire i brani mi piace molto, un po’ come avveniva  negli anni Sessanta quando si facevano uscire tanti singoli, che poi venivano raccolti all’interno di un album. Questa idea ha cominciato ad affascinarmi. Non vorrei fermarmi e chiudermi in uno studio per produrre un album ma vorrei raccontarmi brano dopo brano per poi racchiudere tutto in un racconto. Nella mia testa c’è un album, che uscirà tra poco tempo, forse a fine anno.