Il diritto umano di libera espressione del pensiero è riconosciuto dalla Costituzione. Ma ci vengono imposti lacci, lacciuoli, e anni di galera, a tutela della confessione dominante. La Uaar denuncia la contraddizione che ancora attanaglia il Belpaese

Quando si parla di blasfemia (offese alle divinità) o vilipendio (offese a confessioni religiose, ministri di culto, cose o persone “religiosamente intese”) nei commenti di scuola si è soliti ripetere come queste siano fattispecie residuali, ormai depenalizzate, di applicazione rarissima. Ma è davvero così? E, più importante e prima ancora, è davvero possibile conciliare anche la semplice sussistenza di queste norme, a prescindere dal loro concreto utilizzo, oltre che con il buon senso, con il contemporaneo concetto di Stato laico, pluralista, democratico? No. Ed è risposta che vale per entrambe le domande.

Il codice Zanardelli del 1889 tutelava il sentimento religioso solo dal punto di vista individuale, non formalizzando né recependo la tutela del sacro come valore a prescindere. Ben diversa l’impostazione del codice penale fascista (“Rocco”), tuttora vigente. Dove dovrebbe prevalere il diritto umano fondamentale di libera espressione del pensiero, vengono posti lacci e lacciuoli (e anni di galera) a tutela della confessione dominante.
A dir la verità, in occasione del nuovo Concordato del 1984, che ha almeno ufficialmente abolito la religione di Stato, erano in molti ad aspettarsi…

Il 22-23 marzo, a Bruxelles, ha luogo il convegno “Europa di chi non crede: modelli di laicità, status individuali, diritti collettivi” organizzato dalla Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti in collaborazione con il Parlamento europeo, il Comitato interministeriale diritti umani, l’European humanist federation e la International humanist and ethical union (Iheu)

L’articolo di Adele Orioli prosegue su Left in edicola


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