Una chiamata generica di soccorso dall’Italia. Con una comunicazione: il coordinamento delle operazioni di salvataggio è dei libici. Premesso che la Libia non ha un Marictim rescue coordination centre (Mrcc) e nemmeno le è riconosciuto, dall’Organizzazione internazionale marittima (Imo), lo spazio Search and rescue (Sar), la nave Open Arms, battente bandiera spagnola, ha, con il governo italiano, (solo) un accordo che la impegna a rispettare il codice di condotta, adottato nel 2017, per regolamentare il soccorso dei migranti nelle acque internazionali a nord della Libia. Nessun obbligo, dunque, la cui violazione costituisca reato: l’unico (obbligo) rimane il soccorso in mare di chi soffre e rischia di morire in pochissimo tempo.
A sentire Proactiva Open Arms, c’è stato un cambiamento nell’approccio della guardia costiera italiana: è stata la prima volta che ha delegato il coordinamento delle operazioni alla Libia. E, secondo quanto riferito dal fondatore della Ong, Oscar Camps, durante la conferenza stampa “Contro il reato di soccorso in mare”, alla Commissione per i diritti umani del Senato – con il presidente Luigi Manconi -, sebbene l’Italia non abbia impedito le azioni di soccorso, di certo non le ha facilitate, cambiando il modus operandi in corso d’opera.
Senatore Manconi, è un cambiamento che fa pensare a qualcosa di più pernicioso di quanto non stia già accadendo (anche politicamente)?
Mi auguro che l’incertezza mostrata dall’Italia non si debba a un’eccessiva sensibilità rispetto ai risultati dello scorso 4 marzo. Sarebbe un fatto disdicevole. Stiamo parlando di una vicenda che investe enormi problemi, relativi al diritto italiano, a quello internazionale e al diritto dei diritti umani. Perciò, auspico che questioni così fondamentali non siano messe in discussione da una condizione ordinaria come quella del voto.
Rimbalzata dai fax e dalla comunicazioni diplomatiche, Open Arms viene fatta navigare senza destinazione ufficiale per quasi trentasei ore, in attesa della definizione del porto (sicuro) di sbarco. Difficoltà reale di gestire uno stato di necessità o strategia disumana?
Né l’una, né l’altra ipotesi. Si è trattato di un eccesso di zelo, di un’improvvisa tentazione di sottolineare una formalità fino ad allora mai richiesta: quella che fosse il governo a cui appartiene la nave dell’Ong, la Spagna, a chiedere alle autorità italiane il porto d’approdo. Il che, però, confligge con le situazioni di estremo pericolo in cui versano i migranti che affrontano i viaggi nel Mediterraneo (tanto più in quel giorno e in quella circostanza) e, di conseguenza, con la necessità di intervenire con la massima urgenza e cooperazione tra le forze coinvolte nel soccorso.
Di fatto, la nave è sotto sequestro e l’accusa per la quale i tre membri dell’equipaggio rischiano tra i quattro e i sette anni di carcere è di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Regge? O è un’accusa pretestuosa?
Non regge assolutamente perché nell’operato dell’associazione non c’è nulla che lo possa confermare: la Proactiva svolge un’attività di soccorso messa in atto con l’unica finalità, appunto, di operare il salvataggio. Per cui, l’accusa di essere un’associazione a delinquere è priva di qualsiasi fondamento.
Rimane il sospetto, se non la certezza, che la persecuzione giudiziaria (non inedita) nei confronti dei soccorritori persegua il becero scopo di criminalizzare l’umanità di chi non l’ha persa. E di chi, sabato 24 marzo, è sceso spontaneamente in piazza in diverse città italiane per sostenere l’Ong spagnola, convinto, come recita lo slogan delle manifestazioni, che “salvare le persone non è un delitto”.
«Questa manifestazione, che è nata in maniera spontanea in tante città in Italia e in Spagna, ci fa sentire meno soli e ci fa sentire che c’è molta gente che ci appoggia e che dice ‘no’ a quello che sta succedendo che è assurdo, ridicolo e tragico», ha detto il capo missione della Proactiva Open Arms, Riccardo Gatti, intervenuto al presidio, a Roma. In attesa, presumibilmente fino al 2 aprile prossimo, della decisione del Gip di Catania.