La lealtà elettorale verso il presidente è la merce di scambio delle minoranze per sperare nella protezione dagli attacchi islamisti

«Delle nuove elezioni Potemkin per il popolo egiziano». Paragonando l’imperatrice russa Caterina al presidente egiziano Abel Fattah al Sisi, Robert Fisk, storico corrispondente britannico dell’Indipendent, ha definito così il Cairo al voto in queste ore: sessanta milioni di potenziali elettori dall’Alto al Basso Egitto, urne aperte due giorni fino al 28 marzo, un plebiscito annunciato all’orizzonte, che verrà formalmente riconosciuto il prossimo due aprile.

«In un paese che si è abituato alle elezioni finte, a finti giornali, parlamenti finti» il presidente verrà riconfermato da una larga maggioranza. Con oltre il 96 per cento dei voti ottenuti alle ultime elezioni del 2014, quattro anni dopo, il presidente, «la cui faccia una volta finiva su torte e cioccolatini in segno d’affetto», vincerà con una totale, prevedibile maggioranza. Lealtà elettorale al presidente, per ottenere in cambio protezione dagli attacchi islamisti, arriverà anche da parte di quei dieci milioni di copti che vivono nel paese.

«Ai cristiani d’Egitto, come quelli d’Iraq e Siria, è riservato un posto speciale nei regimi del Medio Oriente. Sono una minoranza e le minoranze hanno sempre bisogno di protezione. E chi può fornirgliela meglio degli autocrati che li governano?». Nel 2016 sono stati cento i copti uccisi negli attacchi jihadisti, dalla penisola del Sinai fino alle chiese nella capitale. Non importa quanto «i cristiani vogliano vivere in una società secolare, di dignità e giustizia: devono fare affidamento su un oppressore contro i musulmani per salvaguardarsi. I copti voteranno fedeli ad un uomo la cui polizia segreta domina la vita politica d’Egitto, i cristiani sono parte integrante del regime di Al Sisi, sfortunatamente è quello che sono diventati», scrive Fisk.

Nelle celle delle prigioni e degli apparati di sicurezza del Cairo rimangono oppositori, blogger, studenti, giornalisti, attivisti. Secondo Human rights watch, su 106mila persone recluse nelle carceri egiziane, almeno 60mila sono prigionieri politici. Nelle strade della capitale non è rimasto nessuno. Alcun fantasma può sfidare il caudillo, se non l’apatia: il vero nemico di queste elezioni è l’astensione. Chi voterà, non chi vincerà. Neutralizzati islamisti e rivoluzionari, altri eventuali potenziali sfidanti, il sociologo egiziano Said Sadek ha detto a Le Monde ciò a cui il regime mira davvero con l’apertura delle urne: «Vuole una forte partecipazione per affermare la sua legittimità all’estero, la sfida è quella di convincere gli indecisi, il popolo lo ha eletto sull’onda della paura quattro anni fa, lo hanno visto come un salvatore dai Fratelli musulmani, oggi c’è stabilità e gli egiziani non si sentono in dovere di andarlo a votare».

Il papa copto Tawadros II non ha ufficialmente supportato il presidente, la Chiesa non ha espresso una posizione ufficiale in merito al voto, ma Boulos Halim, portavoce dell’istituzione religiosa, ha detto: «Non abbiamo chiesto alle persone di votare una particolare persona, ma solo di votare». Uno contro uno: sempre se stesso. Al Sisi non ha rivali, se non un unico sfidante: si chiama Moussa Mostafa Moussa, partito Ghad, lo conoscono in pochi ed è un sostenitore di quello che dovrebbe invece essere il suo avversario politico, il generale.

Il 28 marzo, oltre 133mila seggi in Egitto chiuderanno col buio. Calerà anche a piazza Tahrir, culla di tutte le primavere arabe, ormai silenziosa, dove un manifesto elettorale con la faccia del presidente è tutto quel che rimane oggi, marzo 2018, dopo la rivoluzione del 2011.