La biblioteca Al-Qadiriyya è il simbolo di un Paese lacerato che tenta di rinascere. Una catena umana di semplici cittadini fece sì che i suoi antichi libri scampassero ai saccheggi e alle distruzioni che hanno colpito i più importanti luoghi di cultura durante l’invasione Usa del 2003

Nel 1258 i mongoli invasero Baghdad, all’epoca capitale del califfato abbaside che si estendeva dall’Andalusia alla Persia. Cinsero d’assedio la città, uccisero centinaia di migliaia di persone e violarono la biblioteca, tesoro inestimabile di cultura, arte e pensiero: Dar al-Hikma, la casa della sapienza, era stata fondata come biblioteca privata dal califfo Harun al-Rashid nel IX secolo, poi ampliata dai successori fino a contare mezzo milione di volumi. La più grande biblioteca del mondo conteneva opere in greco, ebraico, copto, siriaco, persiano, sanscrito, arabo. Tanto grande e ricca da ospitare un’università.

I mongoli alla guida di Hulegu, nipote di Genghis Khan, entrarono, presero i libri e li gettarono nel Tigri. Ne distrussero centinaia di migliaia, così tanti che il colore del fiume – si narra – divenne nero per l’inchiostro che abbandonava le pagine. Di quei libri se ne salvarono pochissimi, recuperati dalla gente dall’acqua del Tigri. Uno, un testo del XIII secolo di interpretazione del Corano e dell’Islam, è oggi tra gli scaffali della biblioteca al-Qadiriyya. È sopravvissuto a un’altra distruzione, otto secoli dopo: quella del 2003.

Con l’invasione statunitense dell’Iraq e il caos di bande armate che…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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