Raccontare la vita di chi lavora e di chi muore sul lavoro, perché non sia dimenticato, dopo un trafiletto di cronaca locale. Perché altri domani rischiano la stessa sorte se continueranno a prevalere la rassegnazione e l’oblio

Vai a lavorare in vigna con la tuta blu del babbo e tieni lontani i pensieri cupi dal cuore. Ma poi un amico livornese ti chiama e dice che due operai sono morti al porto di Livorno, nelle cisterne, mentre facevano lo stesso lavoro di manutenzione di chi un tempo aveva indossato quella stessa vecchia tuta blu che tu ora indossi. E ti sale prima il magone e poi la rabbia. E fortunato te che con la tuta blu stai all’aria buona e non negli ambienti confinati dove tuo padre l’aveva portata, a sporcarsi di grasso, idrocarburi e polvere, a prendere il sentore del gas di saldatura e l’ossido ferroso della smerigliatrice. E al paradiso della classe operaia non ci credi più.

Ma scrivi, scrivi la vita di chi lavora, perché domani anche quei due morti di Livorno saranno dimenticati. E altri prenderanno il loro posto: un trafiletto nella cronaca locale, un foglio stampato sul muro del cimitero, e poi la notte e l’oblio. E allora scrivi con ogni mezzo necessario, con la forza della vite che piegata infili nel terreno, a costo di lacrimare linfa come un tralcio potato, col tremore del riso metallico che fa il fil di ferro quando stride sul filare, assicurato da un chiodo curvo. Nulla è sicuro ma tu, maremma cane, scrivi.

Prendete un operaio livornese, come quello a sinistra. Infilatelo in un serbatoio, come quello sullo sfondo. Provate a scrivere una storia senza usare le parole “incidente”, “esplosione”, “polmoni”, “malattia”.
Basta, è impossibile, lasciate stare.
Provate allora a raccontare…

Alberto Prunetti è uno scrittore e giornalista, autore di “108 metri, The new working class hero”, Laterza 2018

L’articolo di Alberto Prunetti prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA