Adottato dall'Italia nel 2013, il trattato impone l'adozione di leggi specifiche per contrastare la violenza di genere, partendo dalla prevenzione. Buone norme ma la realtà è ancora drammatica

Il 7 aprile ricorre l’anniversario dell’approvazione da parte del Comitato dei ministri del consiglio d’Europa della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul. Approvata nel 2011, l’Italia l’ha ratificata il 19 giugno 2013 con voto unanime di entrambe le Camere. A gennaio 2018, i Paesi firmatari sono 46, più tutti gli Stati dell’Unione europea. La convenzione è entrata in vigore ed è diventata vincolante il primo agosto 2014.

Un provvedimento importante e significativo ma che ancora purtroppo, non ha portato grandi cambiamenti nella società italiana, come si evince anche dall’ultimo rapporto di Amnesty Italia come abbiamo scritto su Left.

Lo scopo della convenzione è quello di stabilire uno standard sovranazionale a cui si devono conformare le norme in materia di protezione delle donne da ogni genere di violenza o minaccia di violenza. La stesura del testo è iniziata nel 2008 ed è terminata nel 2010. Nelle ultime fasi della redazione del trattato, il Vaticano e la Russia hanno proposto delle modifiche che sono state criticate da Amnesty International. Le modifiche in questione prevedevano l’esclusione dalla tutela dell’accordo delle donne omosessuali, transessuali e bisessuali. Ma queste modifiche non sono state approvate e anche queste categorie oggi sono tutelate dall’accordo.

Quali sono quindi gli standard a cui si devono conformare le leggi di uno Stato firmatario?
Il trattato è basato su quattro P, che sono: protezione, prevenzione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate. Ad ognuno di questi aspetti è dedicato un capitolo dell’accordo.
Secondo la convenzione la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. È inoltre il primo trattato internazionale a contenere una definizione del concetto di “genere”, qui inteso come «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».
Gli Stati che aderiscono devono includere nei loro codici penali, qualora già non lo siano, una serie di reati: la violenza fisica, psicologica e sessuale, definita come qualunque atto sessuale non consenziente, la sterilizzazione forzata, la mutilazione genitale, le molestie sessuali, l’aborto forzato e il matrimonio forzato.

Uno degli articoli più importanti è il terzo, che definisce delle espressioni ricorrenti nel trattato. Con “violenza contro le donne” si intendono tutti gli atti che determinano o possono determinare un danno fisico, sessuale, psicologico o economico. Nella stessa definizione ricade anche la minaccia di tali atti. La “violenza domestica”, secondo il trattato, è costituita da tutte le azioni violente, da un punto di vista fisico, psicologico, sessuale ed economico che si verificano tra partner e coniugi, attuali o precedenti, indipendentemente dal fatto che l’autore abbia condiviso o meno l’abitazione con la vittima. Infine viene designata la “violenza contro le donne basata sul genere” come qualunque atto violento diretto contro una donna in quanto tale o che colpisce prevalentemente le donne.

Ad ulteriore tutela delle vittime, l’articolo quattro prevede che l’attuazione delle misure deve essere garantita indipendentemente dall’etnia, lingua, religione, opinione politica, orientamento sessuale, identità di genere e status di migrante o rifugiato e appartenenza ad una minoranza.