Fino a ieri, la si poteva incontrare nei locali di tendenza di Roma, ma anche nei giardini privati, invitata a suonare per dilettare una serata: «Mi bastavano un divano o una sedia e io cantavo le mie canzoni. Posso ancora farlo, in realtà». Adesso, dopo un Ep, Federica Messa, in arte Mèsa («con l’accento aperto, mi raccomando!») ha pubblicato il suo primo album di inediti: Touché. Una stoccata, la sua, con la chitarra, che suona da sempre e imbraccia con enorme disinvoltura, per proporre musiche e testi che scrive rinchiusa nella sua cameretta. Cantautrice a tutto tondo, anche se supportata dalla band con cui si esibisce con uno show più elettrico, e meno intimo: il 27 aprile sarà all’Ohibò di Milano, poi la vedremo ospite al prestigioso Mi ami in quel dell’Idroscalo stavolta, il 26 maggio, e poi in tournée per tutta l’estate. Siciliana di origine, ma romana di nascita, anche se fa di tutto per sviluppare, dice lei, un livello di romanità convincente: «Sono cresciuta al Torrino, in una zona periferica di Roma, fin quando non ho iniziato a fare serate in zone molto più centrali come San Lorenzo, il Pigneto, San Giovanni, dove capitavo per caso ogni tanto, non avevo questa conoscenza approfondita della mia città. In questi ultimi anni sto diventando più romana. Amo molto Roma, soprattutto adesso che inizio a fare questo mestiere, sono fortunata a essere qui». Una laurea in Lettere, che oggi le permette di dare lezioni private a giovani studenti e, contemporaneamente, di iniziare a fare questo mestiere: «Certo - ironizza - ho unito due cose molto remunerative: la musica e la letteratura». Una passione, fin da piccola per la musica americana, con la scoperta dei Nirvana, per poi approdare ad altri generi: «…la musica punk, in generale, poi ho scoperto il cantautorato americano, mi sono appassionata a Elliott Smith, ma anche a Joni Mitchell, se vogliamo prendere una grandissima figura femminile. Più tardi, è arrivato il cantautorato italiano e mi sono appassionata tantissimo a Dalla, De Gregori e Battisti». Ad accorgersi di lei è Bomba dischi, etichetta discografica dal gran fiuto, quella di Calcutta per intenderci, ed esce, lo scorso 2 marzo, con questo disco dal titolo francese. I brani, tutti prettamente autobiografici, sono ben undici, e, rievocando il titolo, ogni canzone sembra un incontro di scherma dove non importa tanto chi vince o contro chi si gareggia, quanto il non aver paura di gridare «touché». «Di solito, più che una ricerca, è un modo per capire quello che è successo in un determinato periodo, in un momento particolare della mia vita. Scrivo dopo che nella realtà sono successe delle cose davvero e poi è un mio modo per mettere un punto, mettere a fuoco le cose. Non è un voler ricercare, piuttosto un voler dare un nome alle cose, nelle canzoni. Nasce tutto da quelle che sono le relazioni che ho, di vario tipo: sentimentali, d’amicizia». Infatti, i suoi testi sono un ventaglio variegato di pensieri sussurrati, anzi cantati, che Mèsa fa conoscere in tutta la loro verità. Un disco al quale bisogna predisporsi, molto poco pop, un po’ in controtendenza, ammette lei. Piccoli pezzi di vita, spesso introdotti da periodi musicali non convenzionali o molto suonati, che colpiscono subito però. Come nel brano "Tutto", in cui ci appare da sola con la sua chitarra e sullo sfondo c’è questa Roma che prova a fare sempre più sua, elencandoci una ridda di situazioni, da ventiseienne e non. In "Oceanoletto" è la storia di un amore finito, di un rimpianto, a farci scoprire una delle sue più belle melodie. Rapporti, momenti vissuti, ma anche riflessioni sul mondo che ci circonda: «Nel brano "Un esercito orizzontale" difendo la mia generazione, che, ci dicono, è quella di chi non ha voglia di fare, che comunque si accontenta, però non c’ha il lavoro, non ha "la linea retta" della vita. Quella che, per esempio, avevano i miei che hanno studiato, si sono sposati, hanno avuto i figli. La mia generazione si arrangia, ma forse sogna un po’ più forte e in questo pezzo ho voluto dare valore al sogno, che poi alla fine è più concreto. Noi ci sbattiamo molto per concretizzarlo questo sogno, non stiamo lì ad aspettare che succeda qualcosa, nonostante non abbiamo il posto fisso o abbiamo impiegato un po’ di più a laurearci». Ha le idee chiare questa giovane rivelazione, che, mi piace, si sia formata nei giardini, nei locali, in questi tempi di talent e programmi in cui apparire sembra l’unica qualità. Federica, ce lo ha detto, sogna forte, anche di fare questo mestiere: «L’ho sempre saputo, in qualche modo, che volevo fare questa roba qui, ma forse ho deciso di iniziare a provarci seriamente due o tre anni fa. Perché ho iniziato a scrivere in italiano, mi sono focalizzata in maniera più metodica, più seria anche sul discorso del suonare in giro live, del trovarmi un nome, di mettere insieme dei pezzi da proporre dal vivo. Ho sempre suonato, avuto progetti in questo senso: ho sempre scritto e cantato». Due cose interessanti di lei. Aver abbandonato l’inglese, appunto: «Ho sempre ascoltato la musica inglese, per me era naturale approcciarmi in quel modo là, però poi ho pensato che se volevo parlare in maniera più diretta, avrei dovuto usare la mia lingua, anche per chi, nel mercato italiano ascolta è sicuramente più facile. Volevo che arrivasse, oltre alla melodia, quello che scrivo». Poi questo nome particolare: «Mio nonno aveva un documento antico, sai quelli sui cognomi delle famiglie, e c’era scritto che la mia famiglia, chissà quanti mila anni fa, era di origine spagnola e che in Italia fosse stata aggiunta una esse. Non so se è vera questa storia, ma alla fine mi è parso carino chiamarmi Mèsa, anche se genera un po’ di fraintendimenti e a Roma diventa "me sa’" e la cosa mi diverte anche».

Fino a ieri, la si poteva incontrare nei locali di tendenza di Roma, ma anche nei giardini privati, invitata a suonare per dilettare una serata: «Mi bastavano un divano o una sedia e io cantavo le mie canzoni. Posso ancora farlo, in realtà». Adesso, dopo un Ep, Federica Messa, in arte Mèsa («con l’accento aperto, mi raccomando!») ha pubblicato il suo primo album di inediti: Touché. Una stoccata, la sua, con la chitarra, che suona da sempre e imbraccia con enorme disinvoltura, per proporre musiche e testi che scrive rinchiusa nella sua cameretta.

Cantautrice a tutto tondo, anche se supportata dalla band con cui si esibisce con uno show più elettrico, e meno intimo: il 27 aprile sarà all’Ohibò di Milano, poi la vedremo ospite al prestigioso Mi ami in quel dell’Idroscalo stavolta, il 26 maggio, e poi in tournée per tutta l’estate. Siciliana di origine, ma romana di nascita, anche se fa di tutto per sviluppare, dice lei, un livello di romanità convincente: «Sono cresciuta al Torrino, in una zona periferica di Roma, fin quando non ho iniziato a fare serate in zone molto più centrali come San Lorenzo, il Pigneto, San Giovanni, dove capitavo per caso ogni tanto, non avevo questa conoscenza approfondita della mia città. In questi ultimi anni sto diventando più romana. Amo molto Roma, soprattutto adesso che inizio a fare questo mestiere, sono fortunata a essere qui».

Una laurea in Lettere, che oggi le permette di dare lezioni private a giovani studenti e, contemporaneamente, di iniziare a fare questo mestiere: «Certo – ironizza – ho unito due cose molto remunerative: la musica e la letteratura». Una passione, fin da piccola per la musica americana, con la scoperta dei Nirvana, per poi approdare ad altri generi: «…la musica punk, in generale, poi ho scoperto il cantautorato americano, mi sono appassionata a Elliott Smith, ma anche a Joni Mitchell, se vogliamo prendere una grandissima figura femminile. Più tardi, è arrivato il cantautorato italiano e mi sono appassionata tantissimo a Dalla, De Gregori e Battisti».

Ad accorgersi di lei è Bomba dischi, etichetta discografica dal gran fiuto, quella di Calcutta per intenderci, ed esce, lo scorso 2 marzo, con questo disco dal titolo francese. I brani, tutti prettamente autobiografici, sono ben undici, e, rievocando il titolo, ogni canzone sembra un incontro di scherma dove non importa tanto chi vince o contro chi si gareggia, quanto il non aver paura di gridare «touché». «Di solito, più che una ricerca, è un modo per capire quello che è successo in un determinato periodo, in un momento particolare della mia vita. Scrivo dopo che nella realtà sono successe delle cose davvero e poi è un mio modo per mettere un punto, mettere a fuoco le cose. Non è un voler ricercare, piuttosto un voler dare un nome alle cose, nelle canzoni. Nasce tutto da quelle che sono le relazioni che ho, di vario tipo: sentimentali, d’amicizia».

Infatti, i suoi testi sono un ventaglio variegato di pensieri sussurrati, anzi cantati, che Mèsa fa conoscere in tutta la loro verità. Un disco al quale bisogna predisporsi, molto poco pop, un po’ in controtendenza, ammette lei. Piccoli pezzi di vita, spesso introdotti da periodi musicali non convenzionali o molto suonati, che colpiscono subito però. Come nel brano “Tutto”, in cui ci appare da sola con la sua chitarra e sullo sfondo c’è questa Roma che prova a fare sempre più sua, elencandoci una ridda di situazioni, da ventiseienne e non. In “Oceanoletto” è la storia di un amore finito, di un rimpianto, a farci scoprire una delle sue più belle melodie.

Rapporti, momenti vissuti, ma anche riflessioni sul mondo che ci circonda: «Nel brano “Un esercito orizzontale” difendo la mia generazione, che, ci dicono, è quella di chi non ha voglia di fare, che comunque si accontenta, però non c’ha il lavoro, non ha “la linea retta” della vita. Quella che, per esempio, avevano i miei che hanno studiato, si sono sposati, hanno avuto i figli. La mia generazione si arrangia, ma forse sogna un po’ più forte e in questo pezzo ho voluto dare valore al sogno, che poi alla fine è più concreto. Noi ci sbattiamo molto per concretizzarlo questo sogno, non stiamo lì ad aspettare che succeda qualcosa, nonostante non abbiamo il posto fisso o abbiamo impiegato un po’ di più a laurearci».

Ha le idee chiare questa giovane rivelazione, che, mi piace, si sia formata nei giardini, nei locali, in questi tempi di talent e programmi in cui apparire sembra l’unica qualità. Federica, ce lo ha detto, sogna forte, anche di fare questo mestiere: «L’ho sempre saputo, in qualche modo, che volevo fare questa roba qui, ma forse ho deciso di iniziare a provarci seriamente due o tre anni fa. Perché ho iniziato a scrivere in italiano, mi sono focalizzata in maniera più metodica, più seria anche sul discorso del suonare in giro live, del trovarmi un nome, di mettere insieme dei pezzi da proporre dal vivo. Ho sempre suonato, avuto progetti in questo senso: ho sempre scritto e cantato».

Due cose interessanti di lei. Aver abbandonato l’inglese, appunto: «Ho sempre ascoltato la musica inglese, per me era naturale approcciarmi in quel modo là, però poi ho pensato che se volevo parlare in maniera più diretta, avrei dovuto usare la mia lingua, anche per chi, nel mercato italiano ascolta è sicuramente più facile. Volevo che arrivasse, oltre alla melodia, quello che scrivo». Poi questo nome particolare: «Mio nonno aveva un documento antico, sai quelli sui cognomi delle famiglie, e c’era scritto che la mia famiglia, chissà quanti mila anni fa, era di origine spagnola e che in Italia fosse stata aggiunta una esse. Non so se è vera questa storia, ma alla fine mi è parso carino chiamarmi Mèsa, anche se genera un po’ di fraintendimenti e a Roma diventa “me sa’” e la cosa mi diverte anche».