«L’arresto dell’ex presidente è un’operazione mirata della destra contro il Partito dei lavoratori, tutti sanno che le accuse sono inconsistenti», dice Ernesto Puhl, dirigente di Sem terra. Obiettivo dei golpisti? Cancellare le riforme sociali e rigettare nella povertà milioni di persone

Chapecó. Stato Santa Catarina. Brasile. Il nome della città dice poco, al di qua dell’Atlantico. Ad eccezione degli appassionati di calcio. Nel 2016, infatti, la Chapecoense, la squadra di calcio della città, diviene famosa suo malgrado in tutto il mondo. È il 28 novembre e l’aereo su cui viaggiano i calciatori precipita nei pressi di Medellin (Colombia). È una strage. Muoiono in 71, tra cui tutta la Chapecoense, ad eccezione di tre tesserati. Viene alla mente, da quest’altra parte dell’oceano, la tragedia di Superga. Altra epoca, altre latitudini, stesso massacro.
È proprio da Chapecó che viene Ernesto Puhl, dirigente del Movimento Sem terra (Mst), movimento sociale brasiliano che coinvolge più di un milione e mezzo di famiglie e che ha la sua ragion d’essere nella conquista di quella che i militanti chiamano «riforma agraria popolare».

È in Italia, invitato da Rete Radié Resch, per un giro di incontri sugli obiettivi e le pratiche del Mst. Lo incontriamo all’Ex opg Je so’ pazzo di Napoli e poi allo Spazio pueblo di Cava de’ Tirreni, le due tappe meridionali di questo tour. È qui, tra assemblee e sorsate dell’inseparabile chimarrão (l’infuso preparato con foglie di erba Mate, ndr), che le domande si affollano. Ernesto conosce a fondo il Mst. Ne respira l’aria da quando aveva cinque anni. Tutta la sua famiglia è «insediata»; vive, cioè, in un pezzo di terra conquistato grazie ad una delle occupazioni promosse dal Mst, e ora legalmente riconosciute anche dalle istituzioni. Un risultato conseguito grazie alla lotta. «Lottare sempre», slogan del movimento, preso a prestito da una delle figure di riferimento dei «senza terra», il sociologo Florestan Fernandes, non è mera retorica.

Ma non parla tanto del Mst. Gli eventi brasiliani delle ultime settimane ne stravolgono l’agenda. Prima il mandato d’arresto per Lula, l’ex presidente brasiliano. Poi la grande mobilitazione popolare a sua difesa. Ventimila persone a fungere da scudo umano dinanzi alla sede del sindacato in cui si trovava, per impedire che la polizia potesse catturarlo. Quando Ernesto ce ne parla i suoi occhi si accendono, «si animano» come direbbe lui. Infine – ma la parola “fine” è tutt’altro che scritta – l’arrivo di Lula nel carcere di Curitiba. Condannato in secondo grado a dodici anni di detenzione, con l’accusa di corruzione e riciclaggio.

Il Brasile è tornato al centro dell’interesse dei media internazionali dopo la notizia delle porte del carcere che si aprono per l’ex presidente Lula. C’è chi parla di «Tangentopoli brasiliana» e chi di «golpe». Qual è la situazione?
Tutti sanno che le accuse rivolte a Lula sono inconsistenti. Addirittura il pubblico ministero federale dell’operazione Lava jato («autolavaggio», questo il nome dell’inchiesta che coinvolge per corruzione decine di politici brasiliani), Dallagnol, ha sostenuto che contro Lula hanno…

L’intervista di Giuliano Granato a Ernesto Puhl prosegue su Left n.17


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