Mansur è morto in combattimento e Rushena resta sola. Tenta di rientrare in Russia con l'aiuto dei parenti, ma 10mila dollari non bastano a chi può organizzare il rientro illegale in Russia

Le guerre, e guerre peculiari come quella “santa” dello Stato islamico, si portano dietro tante piccole storie e tragedie, spesso poco conosciute. Qualche mese fa il presidente della repubblica autonoma cecena della Federazione russa, Razman Kadyrov, ha denunciato la detenzione una settantina di donne di nazionalità russa (insieme ai loro figli) in campi di concentramento a Bagdad, in attesa di processo da anni. Sono donne che negli scorsi anni si sono legate a combattenti o foreign fighers dell’Isis e ne hanno seguito il destino. Kadyrov ha chiesto al governo russo di interessarsi dei casi di queste donne e bambini per riportarli in patria. Sono donne che in Iraq, rischiano l’ergastolo e anche la pena di morte.

Bbc-Russia è riuscita a ricostruire il percorso di una di loro, grazie alle informazioni ricevute dalla sua famiglia. Rushena T. viveva a Sinferopoli in Crimea. La famiglia, di origine tatara, era musulmana, ma solo come riferimento culturale: nessun suo membro frequentava la moschea, nessuna donna in famiglia copriva il capo. E Rushena era una ragazza come tante. Parrucchiera, hobby della fotografia, adorava i profumi francesi. Le foto la ritraggono con jeans, tacchi alti, occhiali da sole e giubbotto di pelle. Poi in un sito di incontri nel 2014 conosce Mansur, un ceceno, e ne se invaghisce. Lo raggiunge in Cecenia, poi vivono qualche tempo a Istanbul. Infine il grande salto. L’adesione del marito all’Isis e il loro trasferimento in Iraq, a Mosoul. Lì fa la vita di una islamica “per bene”: porta il velo, esce solo con il marito per andare a parlare con i familiari in Russia all’internet-café, le nasce anche un bimbo. Si trova ogni tanto con due amiche russe che anch’esse hanno scelto di seguire i loro uomini in questa disgraziata avventura. Il loro unico svago, autorizzate dai mariti, tingersi i capelli di arancione e biondo platino.

Fino al giorno che Mansur muore in combattimento e Rushena resta sola. Tenta di rientrare in Russia con l’aiuto dei parenti, ma 10mila dollari non bastano a chi può organizzare il rientro illegale in Russia. Alla fine, quando le forze governative riprendono il controllo di Mosoul, Rushena e il figlio vengono arrestate. Ora come tutte le altre donne russe è ancora in attesa del processo. La famiglia giura che non sia una terrorista. Il governo russo si è mosso con circospezione sia perché sarebbe difficile avanzare una richiesta di estradizione sia perché teme che alcune di queste donne possano essere ancora legate all’esercito islamico, possano alimentare il fenomeno del radicalismo islamico in Russia, Marya Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri della Federazione russa, in un briefing dello scorso aprile ha confermato che il governo russo si vuole tenere le mani libere. Zacharova ha dichiarato che se verrà confermata la cittadinanza russa delle donne, l’ambasciata in Iraq “garantirà il rispetto dei loro diritti e la difesa da parte gli avvocati locali”, ma niente più.

Questa la vicenda. Ora credo che nessuno abbia risposte facili in questo tipo di situazioni che mettono in gioco diritti umani ma anche sicurezza per i cittadini del paese coinvolto. Difficile davvero immaginare come venirne fuori, in primo luogo per i bambini. E neppure io, lo ammetto, ho le idee chiare. E quindi vi chiedo, cari lettori, cosa ne pensate?

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