Da pochi giorni è in libreria il nuovo romanzo di Simone Lenzi, In esilio. L’anno scorso, un libretto, così lo definisce l’autore, a dir poco interessante: Per il verso giusto. Un’anatomia filologica, ma non solo, della canzone. A firmarlo per Marsilio è Simone Lenzi, frontman del gruppo Virginiana Miller, autore de La generazione e del premiato Mali minori, quasi filosofo (manca solo la tesi), amante del silenzio, di cui gode in un paese in provincia di Pisa.
Con la prefazione di Bianconi dei Baustelle, Per il verso giusto, (che sarà presentato il 3 maggio, alle 14,30 all’Università di Siena da Simone Marchesi, Gianni Guastella, Francesco Stella e Natascia Tonelli) è un viaggio nella tradizione madrigalista per arrivare ai Beatles, passando per la musica barocca di Monteverdi e le sonorità contemporanee dei Radiohead. Sottolineando ogni volta il carattere democratico della forma canzone. E come musica e testo si donino senso a vicenda.
Simone Lenzi, la canzone è «costitutivamente democratica», perché?
Perché unisce due attitudini: una è quella del paradigma classico dell’artista romantico, che vuole affermare la propria individualità, uno stile, una cifra personale. Ma facendo canzoni non può ignorare modelli condivisi dalla collettività. Che poi da un punto di vista politico, corrisponde ad affermare se stessi con gli altri.
Piero Ciampi e i Blink-182. Ritroviamo Gino Paoli e un gruppo come i Massive Attack. Cosa ha guidato la scelta?
Sono andato a pescare tra cose che mi piacciono, che conosco. Mi interessava far capire che cosa succede quando la parola incontra la musica in una canzone. Quando eravamo più giovani discutevamo fra commerciali e non, indie e non indie, categorie che sono completamente saltate. Riproporre certe divisioni non aiuta.
Che potere può avere una canzone oggi?
Il potere che hanno tutte le cose belle, trovare un senso, anche se dura tre minuti.
Il Nobel a Bob Dylan ha fatto molto discutere. Era giusto?
Giusto perché è indubbio che i testi di Dylan abbiano anche un valore letterario; non giusto perché di fatto si rischia di fraintendere cosa sia una canzone. Non è una poesia messa in musica. In una canzone musica e parole tendono a costituire un’unità: non si dà l’una senza l’altra perché l’una dà senso all’altra.
Bisognerebbe inventare un premio Nobel per la forma canzone?
Anche qui ci sarebbe il rischio di monumentalizzare troppo la forma canzone che, invece, secondo me, avrà una sua vitalità fino a quando non verrà museificata, finché rimarrà una forma d’arte popolare.
Se proprio dovessimo assegnarne uno?
Per me dovrebbe essere assegnato a Paolo Conte.
Personalmente, qual è l’obiettivo?
Andare alla ricerca di una intuizione, trovare un’atmosfera.
A quando il prossimo album con i Virginiana?
Stiamo lavorando a un disco nuovo, del quale abbiamo tutti i testi, con i nostri tempi (ride) calmi, pigri. L’ideale per noi sarebbe registrarlo entro la fine dell’anno e poi uscire agli inizi del prossimo.