Storie di ordinaria disapplicazione della legge e di feroce attacco alle donne. Da Roma a Milano, alla Sicilia. Ecco cosa succede quando ci si trova a decidere se interrompere o meno una gravidanza e cosa accade nei consultori e negli ospedali dove lo Stato laico scompare, il feto è sacro e la salute della donna è irrilevante

G. ha vent’anni. Avrebbe dovuto avere le mestruazioni la settimana scorsa. Non si ricorda bene, l’app non funziona come dovrebbe. Alla fine fa un test in farmacia, positivo. Guarda quella lineetta blu. Le scappa un sorriso. È contenta. Contenta? Come contenta? Contenta di avere un figlio? No, no, no, non scherziamo, è terrorizzata. Però funziona. Il suo corpo funziona. È una donna, è incinta. Beh alla fine una soddisfazione, una potenza. Ok, ok, ma non se parla di tenerlo. Chiama un’amica, vanno su un motore di ricerca online. Aborto. Trovano il consultorio familiare più vicino. Si chiama Maria Santissima della Montagna. In Lombardia, Comunione e liberazione ha appaltato la metà dei consultori a strutture religiose. Telefona, chiede aiuto, ha saputo che le serve un colloquio e un certificato. Un documento. Un’attestazione del colloquio con un medico. Dall’altra parte del filo le risponde una gentilissima signora. No no, per carità, non se ne parla di avere il certificato per l’interruzione di gravidanza. «Venga però, venga che parliamo, le serve parlarne, lo sa? Le donne dopo un aborto stanno tanto male, venga venga da noi, le spieghiamo bene quello che succede, siamo solo noi che la possiamo aiutare davvero».

G. mette giù il telefono. Qualcosa in quella voce troppo gentile l’ha spaventata. No, non è quello di cui ha bisogno, non sa neanche lei perché, erano così gentili, le hanno offerto aiuto. Perché si è sentita minacciata? Eppure ora ha paura, deve cercare ancora. In Italia e in Europa i movimenti contro la libera scelta (dire che sono «pro-vita» è una bugia) diffondono la falsa notizia che le donne dopo un aborto volontario si suicidino più di frequente e che comunque attraversino gravi depressioni, oltre alle conseguenze fisiche. In Francia hanno creato dei falsi siti di informazione sull’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) per diffondere fake news sugli effetti collaterali dopo l’aborto volontario. E per contrastarli è stata emanata una legge che vieta di farlo. Proprio così. In Francia dal 2016 c’è una norma che si chiama Loi sur le delit d’entrave: legge sul reato di ostacolo alla Ivg. Vuol dire che non puoi creare un sito internet per spaventare le donne raccontando bugie (mentire non è libertà di espressione), non puoi andare davanti ai servizi di Ivg con cartelli minacciosi fermando le donne per convincerle a non abortire «per il loro bene». Devi lasciarle in pace.

N. invece ha una gravidanza voluta. Fa un’ecografia morfologica, 20 settimane, quattro mesi, in un ospedale pubblico. Nel nuovo protocollo italiano sugli esami in gravidanza quest’ecografia è stata anticipata a 19/21 settimane, proprio per dare il tempo di fare accertamenti ed eventualmente abortire prima della 24 settimana. In Italia dopo le 24 settimane non è possibile niente, in nessun caso. In Francia, in Belgio, in Croazia invece sì. Ma torniamo a N. Quando riceve la notizia le tremano le gambe. Un figlio voluto, cosa succede ? Cosa c’è che non va? Le viene messo in mano un foglietto. Per ulteriori accertamenti. L’appuntamento è in un ospedale religioso. Qui siamo nel Lazio. La diagnostica prenatale ecografica è in mano agli ospedali del Vaticano. Le strutture pubbliche non hanno più soldi, il pediatrico Bambino Gesù ha ricevuto 50 milioni di euro per finanziare la ricerca. La clinica pediatrica dell’Università La Sapienza invece ha chiuso le ecocardiografie agli esterni per mancanza di fondi. N. si reca all’ospedale religioso, un po’ incerta. Sono così eccellenti? Sicuri? Non c’è altro? 

La accolgono subito, anche qui sono gentilissimi. Colloquio, ecografia. Colloquio, risonanza magnetica. Colloquio, nuova ecografia. Colloquio etico. Alla fine le settimane diventano 26. Ed è  finita così: il suo bambino ha una malformazione incompatibile con la vita ma in Italia non si può fare più nulla. Lo porta a termine. Lo sente muovere. Quando nasce, alla quarantesima settimana lo porta in un hospice religioso dove morirà in tre giorni. Secondo i dettami dell’ostetricia religiosa tu non farai niente, aspetterai che muoia dopo averlo portato a termine. Il presidente dei medici cattolici, il dottor Noia, gira l’Italia con il Rotary per raccogliere fondi per gli hospice dove far morire i neonati incompatibili con la vita di cui hanno impedito l’aborto. La chiamano «l’altra possibilità». Peccato che ti impediscano di scegliere facendoti semplicemente perdere tempo. Peccato che quel bambino morirà comunque, in ogni caso.

La terza donna di cui parliamo è Valentina Milluzzo. Lei ha un nome e un cognome, perché di aborto rifiutato è morta. Si è ricoverata a Catania, nell’ospedale Cannizzaro, un ospedale laico, stavolta, con l’utero dilatato, alla 17esima settimana di gravidanza. È rimasta 15 giorni a letto con i piedi in alto (a 17 settimane? Sì a 17 settimane) senza che nessuno le spiegasse – in un ospedale nel quale gli obiettori in ostetricia sono il 100% – che l’aborto terapeutico poteva essere un’opzione che avrebbe protetto la sua salute. La sua vita. Il fondatore del Popolo della famiglia, Mario Adinolfi, dice con orgoglio che gli ospedali sono pieni di militanti cattolici nei reparti di ostetricia. Certo, militanti che «finché c’è il battito fetale» si rifiutano di prestare cure alle donne. Ci viene replicato che se una donna sta male certamente sarà curata. Ma quanto deve star male? Se ha una gravidanza extrauterina deve iniziare l’emorragia… se ha un sacco rotto deve almeno manifestare segni di infezione… se ha la pressione alta deve avere le convulsioni… e così, qualche volta, quando stai tanto male da riuscire ad ottenere le cure anche se c’è il battito poi non ce la fai lo stesso e muori. Valentina è morta così. Dopo 15 giorni ha avuto una setticemia, a causa di quell’utero aperto, e un medico in preda al panico le ha negato anche quelle cure tardive che forse non l’avrebbero salvata comunque.

Negli Stati Uniti, dove le cose hanno spesso un nome e un cognome più chiaro che da noi, già nel 2008 l’American Journal of public health ha pubblicato una ricerca sui ritardi nelle cure alle donne negli ospedali cattolici, per via della presenza del battito cardiaco. E così questa è la mia celebrazione dei quarant’anni della legge 194. Non siamo mai stati in pericolo come adesso, di arretrare sui diritti delle donne. Non abbiamo mai avuto bisogno come ora che la difesa delle scelte delle donne e della loro salute sia presa in carico dalle donne e dagli uomini, da tutti i cittadini che pensano che lo Stato debba essere laico.

L’articolo di Elisabetta Canitano è tratto da Left n. 19 dell’11 maggio 2018


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