Ascoltare Lingue, l’ultimo album di Tommaso Di Giulio, uscito per Leave Music, è come ritrovarsi nella platea di un cinema e godersi un buon film. Dieci inediti, una scaletta di titoli che sono scene diverse di vita, quelle dei suoi ultimi due anni, il cui incipit è affidato a “Canzone per S.” dedicata a suo padre, gravemente ammalato. Un dramma, questo, che per l’artista è stato anche un passaggio di cambiamento e di grande maturazione. Dal quale ha avuto il coraggio di ricominciare: «Avevo lavorato a un disco estremamente pop, andando di cesello fino all’ossessione perché volevo tentare un colpaccio e vedere se si poteva distillare a tavolino una perfetta canzone pop; ero piuttosto soddisfatto dell’operazione a livello intellettuale. Poi la malattia di mio padre… quando ho potuto di nuovo occuparmi un po’ di me, ho riascoltato queste canzoni, non avevo né la credibilità di cantarle né la voglia perché ero diventato qualcun altro e quindi ho buttato tutto ripartendo da zero, scrivendo in maniera opposta, soprattutto di pancia, in totale antitesi con prima».
Sono lingue tutti i modi di comunicare, vecchi o nuovi, ma possibili, per entrare in rapporto con l’altro, per dire un addio, per cambiare e ricominciare. Cantautore, ma anche autore per altri (“Disordine d’Aprile” l’ha scritta per Gazzè e il suo “Maximilian”), Di Giulio è anche compositore. Nato a Roma, laureato in Storia delle arti visive, da sempre ama la musica. A 14 anni dei compagni di liceo gli chiesero si entrare nella loro band, che faceva blues e rockabilly, mentre in tutto il resto del liceo il genere che andava per la maggiore era il nu metal: «Noi, invece, tutti incravattati facevamo Chuck Berry e Johnny Cash. Da allora la cosa mi è piaciuta parecchio e mi sono messo a studiare: ho fatto una decina di anni tra basso elettrico, arrangiamento e contrabbasso, con studi tipicamente classici, poi ho imparato a suonare la chitarra da me, per scrivere. La chitarra è una buona compagna di viaggio per liberarti di pesi o impressioni quando vuoi».
Lo raggiungo al telefono mentre è in viaggio, di ritorno da un tour teatrale, per parlare di questo sul album/film, che canzone dopo canzone, anzi scena dopo scena, si conclude con un altro pezzo molto suggestivo, “Quello nello specchio”. Non diverso nelle sonorità, ben suonato sempre, efficace nel testo al pari di tutti gli altri preziosi brani perché questo è: «Un disco pieno di corpi che si muove per opposizioni tra luce ed ombra, sconfitta e resistenza, razionale e irrazionale, l’amore e il suo contrario».
È stato coraggioso, da parte tua, ripartire da zero e il risultato di Lingue mi pare ti ripaghi ampiamente.
Si è aperta una diga emotiva, un buco in un muro, in una corazza che mi ero dovuto costruire per non soccombere a tutta una serie di cose, da cui poi è uscito fuori, come un’inondazione, il disco vero. Questo è il terzo album dopo “Per Fortuna dormo poco” e “L’Ora solare”, in cui da un inizio post punk, passando per la new wave, approdi a un genere da qualcuno definito “pop cinematografico”. Fu una felice definizione di un giornalista, dopo un concerto all’Auditorium a Roma, e mi piacque perché io ho sempre difficoltà a definire qual è il mio genere. Solo pop può fuorviare, mentre quella definizione lì, visto che io cerco sempre di lavorare più per frammenti, possibilmente anche visivi, che rimanda alle immagini, mi è piaciuta.
E il punk che fine ha fatto: fa ancora parte del cantautore che sei oggi?
Oggi sono, anche, la somma dei miei ascolti, di quello che i miei ascolti mi hanno fatto diventare. Nello specifico il post punk e il rock ‘n’ roll sono i due generi che ho divorato. Poi sono un grande collezionista di dischi di dimensioni mastodontiche e anche un po’ patologiche; a casa mia puoi trovare dal disco di Björk a quello dei Sepultura. In realtà, in questo disco, più che negli altri due, ho evitato di essere “citazionista”, mentre precedentemente mi ero sempre posto il problema di dire: ma se io stessi ascoltando questo disco, cosa ci vorrei sentire? Con Lingue ho semplicemente lasciato fluire ciò che l’emotività e gli impulsi più ancestrali mi stavano suggerendo in quel momento.
Comunque, il cambiamento ti caratterizza molto e non hai timore di metterlo in atto.
Sono a metà tra il mio essere stato darkettone, vicino al mondo post punk, e l’accademia del maestro, con tutti gli studi classici a iniziare dal solfeggio. Poi ho prontamente dimenticato e trasceso: in quello che faccio c’è l’incontro dell’accademia e del suo rifiuto.
A proposito di film e di cinema, sei compositore di colonne sonore per il cinema e anche per il teatro, come in “Dieci Storie Proprio Così”, pièce in cui si raccontano storie di mafia, diventato anche film per la Rai.
Da un anno e mezzo siamo in giro, per tutta Italia, a raccontare storie universali di persone che non sono martiri né eroi, perché sono ancora in vita, che si sono ribellate, con successo, alle mafie di tutta Italia. Spesso raccontando cose che non si sanno come le infiltrazioni ‘ndrànghetiste e camorriste al Nord. La cosa bella di questo spettacolo è che non è per niente ecumenico: suoniamo dal vivo, io e un batterista che si chiama Paolo Volpini, e non c’è nulla di appunto propedeutico o di troppo didattico nei nostri suoni, è un blues metropolitano. Questo si vede ha un effetto, invoglia molto a partecipare a un dibattito che c’è dopo ogni rappresentazione. È stata un’esperienza bellissima, il mondo delle colonne sonore mi affascina tantissimo, anche se ho fatto due versioni differenti per il film e per la rappresentazione dal vivo: la prima è più eterea, mi sono ispirato a quella per “Dead Man”, composta di Neil Young; quando sto sul c’è una pressione sonora grazie a un amplificatore a valvole, schiaffato su una platea, che si ritrova parole e musiche di tutto altro impatto.
Qual è la reazione, soprattutto dei giovani, degli studenti, quando gli parlate delle infiltrazioni mafiose anche al Nord?
La reazione dei ragazzi è migliore rispetto alle istituzioni e della politica, che fino a qualche anno fa rifiutavano il fenomeno, dicendo che da loro non succedevano certe cose. Adesso non lo possono più dire con tutti i fatti palesi, con i processi, che queste infiltrazioni non ci sono. I ragazzi reagiscono con una partecipazione straordinaria, sono super curiosi e la cosa bella è che noi lavoriamo direttamente con le scuole, prepariamo dei laboratori prima che loro arrivino a vedere lo spettacolo. Se uno riesce, su una classe di trenta ragazzi, anche solo a far sviluppare uno sguardo critico cosciente diverso è una piccola vittoria.
Siete andati in giro per l’Italia, la tournée proseguirà?
Sono appena rientrato da Torino, ma abbiamo portato lo spettacolo ovunque: dal Friuli alla Sicilia, passando per Scampia e riprenderà prossimamente perché le storie continuano ad arrivare in gran quantità. È un testo vivo, work in progress.
E il tour per Lingue?
Dopo Milano e Roma, ricomincerò in estate a suonare in tutta Italia, fino al prossimo autunno!