Sembra ieri, forse perché la stampa internazionale ha scoperto il fenomeno lentamente, ma il governo portoghese a guida socialista minoritaria e con l’appoggio esterno dell’arcipelago di comunisti, verdi e Bloco de esquerda (partito nato nel 1999 dalla fusione di diversi movimenti che da tempo non s’identificavano nel Pcp) è ormai giunto in fase di bilanci. Quando s’insediò – novembre 2015 -, i bookmaker gli davano pochi mesi di vita. Lo chiamavano geringonça, ossia “bagnarola”, “trabiccolo”, ma anche (a tradurlo nel gergo politico nostrano) “inciucio”. L’accordo tra il partito degli spendaccioni, quei socialisti che nel 2011 avevano sfiorato la bancarotta, e la sinistra radicale, che voleva uscire dall’Euro e dalla Nato, avrebbe messo gli investitori in fuga e i partner europei in allarme. Non sarebbe andato lontano.
Invece è andata diversamente. Il Pil (2,7% nel 2017) non era così alto dal 2000, un deficit così basso non si era mai visto in tutta la storia democratica del Paese e la disoccupazione è scesa intorno all’8%. Stupore internazionale: da sinistra si poteva governare. Persino gli anticapitalisti più cattivi dimostravano di saper stare al tavolo del tè senza drizzare il mignolo. Il 14 aprile scorso l’Economist titolava: “Piccolo miracolo sull’Atlantico”, ed era solo l’ultimo di una lunga serie di elogi provenienti da più parti al governo di António Costa. Ma l’articolo, letto in dettaglio, diceva qualcos’altro. Diceva che la sinistra portoghese gode di buona salute perché in fondo non è poi così di sinistra («it is not especially left-wing»).
Il fatto è che il governo Costa è il passo avanti dopo i soliti due indietro. Per capirlo, urge un breve riepilogo. Già l’ultima fase del secondo governo socialista di José Sócrates stava varando una prima austerità, e quel governo cadde proprio su un pacchetto di pesanti tagli. Poi venne la destra e…