Duecentodieci bambini soldato sono stati liberati il 20 maggio dai gruppi armati in Sud Sudan, è il terzo rilascio di un gruppo di minori avvenuto nel 2018, ma qui termina la buona notizia. L’Unicef stima infatti che rimangono ancora altri 19mila bambini reclutati come soldati nel Paese. Con la guerra che dura ormai da cinque anni e all’orizzonte poche speranze reali per una soluzione, mentre i colloqui per la pace sono in stallo, nessuno sa come e quando terminerà il conflitto scoppiato nel dicembre del 2013.
Nonostante l’Onu abbia emanato protocolli per mettere fine a reclutamenti tra i minori, nel mondo decine di migliaia i bambini stanno imbracciando un fucile. Molti di loro vivono nel Sud Sudan, uno Stato dove «la cessazione delle ostilità è una finzione, il processo di pace finora non ha prodotto niente, l’economia è collassata, le persone vanno incontro a sofferenze inimmaginabili», ha detto Mark Lowcock, capo ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, in visita nel Paese. Un Paese, ricordiamo, vittima di epidemie e di una carestia costante.
Quest’anno, in totale, 806 bambini soldato sono stati sottratti ai gruppi armati attivi nel Sud Sudan. «Altri mille verranno liberati nei prossimi mesi» ha assicurato Farham Haq, portavoce delle Nazioni Unite. Ma non è solo la violenza delle milizie che contribuisce a creare i bambini soldato. È anche la fame e la miseria. «Non tutti i bambini sono reclutati, molti si uniscono ai gruppi armati perché pensano non ci sia altra opzione» ha detto Mahimbo Mdoe, rappresentante Unicef, che ad aprile, per un altro rilascio aveva ribadito che «il processo di reintegrazione è delicato, dobbiamo garantirlo ai bambini».
Per recuperare i piccoli e farli tornare alla vita normale per tre mesi verranno seguiti con un programma speciale di educazione. Non è facile. A febbraio, altri 300 bambini erano tornati alla vita di prima, dopo una cerimonia conosciuta come “l’abbandono delle armi”, un momento più simbolico che altro, in cui si svestono dalla divisa e indossano abiti civili. Serve anche questo per superare un momento così drammatico della propria vita. Se per le ragazze essere reclutate spesso vuol dire stupro e violenza, matrimoni e gravidanze forzate, per i ragazzi significa essere obbligati ad uccidere, spiare membri della loro famiglia o essere costretti al cannibalismo. «I traumi da superare sono immensi» ha detto Mdoe.
Secondo l’ultimo report dell’IPC, Food security Phase Classification, Unicef e Fao, le cifre, per le migliaia di persone rimaste senza alcuna fonte di cibo, in Sud Sudan parlano di una catastrofe umanitaria. Secondo gli ultimi dati, che risalgono al 2017, ci sono 4.8 milioni di persone in emergenza, il doppio rispetto all’anno precedente. Per gennaio 2018 le previsioni allora parlavano di 5 milioni. Tra loro oltre un milione di bambini sotto i cinque anni è a rischio malnutrizione, 300mila ad alto rischio di morte.
A causa del conflitto tra il presidente Salva Kiir e il suo ex alleato e vice presidente Rieck Machar, il conflitto in Sud Sudan continua costantemente dal 2013. Sono oltre 4 milioni i profughi e oltre 50mila le vittime stimate.
Nel 2015, 1775 bambini soldato sono stati liberati, ma il reclutamento non si è mai fermato. E infatti il Sud Sudan è uno dei Paesi al mondo con il più alto numero di bambini arruolati, come si può vedere dalla mappa di Child soldiers.
Nel 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato un protocollo per mettere fine ai reclutamenti e nel 2014 è stata lanciata una campagna globale per liberare tutti i bambini dai campi di battaglia. C’è stato qualche successo, le Nazioni Unite sostengono che 115mila bambini sono stati liberati globalmente dal 2000, ma in nazioni devastate dalla guerra come Yemen, Iraq, Sud Sudan i numeri stanno crescendo, si leggeva in una inchiesta della fine del 2017 nel Washington Post.
Se a casa non hanno più le loro famiglie, massacrate da una tribù rivale, se non trovano una fonte di sostentamento, se non scorgono alternative di vita futura, i bambini diventati grandi tornano dai loro carnefici d’infanzia, si uniscono volontariamente a milizie armate etniche, paramilitari, gruppi ribelli, militari ufficiali. E le Ong che si occupano di loro hanno una formula in questi casi: scrivono accanto al loro nome “re-recruited”, ri-reclutati.