Circa il 2,1 per cento degli studenti di 15-19 anni ha assunto almeno una volta nella vita sostanze psicoattive senza sapere di cosa si trattasse

Come dare alla cannabis una disciplina legale? Quali sono gli effetti della legalizzazione della cannabis sull’entità del consumo e sulla salute dei consumatori? Quali sono i risultati delle esperienze di legalizzazione in corso nel mondo? A queste domande prova a rispondere il volume curato da Leopoldo Grosso “Questione cannabis, le ragioni della legalizzazione”, con contributi di S. Giancane, L. Grosso, L. Manconi e A. Sordo, M. Rossi G. Zuffa. Il volume, edito dal Gruppo Abele viene presentato il 30 maggio alle 17,30 nella sala convegni del Cesv Lazio, a Roma.  Eccone un estratto:

L’argomento chiave di tutta la dialettica proibizionista, il cavallo di battaglia di ogni oppositore alla legalizzazione della cannabis è quello che riguarda i rischi e i danni per-i-giovani. Nella impostazione di chi lo propone, questo argomento è inappellabile, è una verità autoevidente in grado di inchiodare all’inefficacia ogni tipo di obiezione. E tuttavia, con buone ragioni, si può dimostrare che è vero l’esatto inverso: ovvero che sarebbe proprio la legalizzazione della cannabis, nel quadro di una diversa politica, a produrre effetti davvero benefici per-i-giovani.
I pericoli della situazione attuale – dove chiunque, maggiorenne o meno, può reperire a qualsiasi ora, in qualsiasi strada, di qualsiasi città, ogni tipo di sostanza – sono, infatti, davvero molti. Basta dare un’occhiata allo studio Espad Italia, che ogni anno fotografa la situazione dei comportamenti a rischio tra gli studenti italiani di età compresa tra i 15 e i 19 anni. Secondo la rilevazione oltre un terzo degli studenti ha sperimentato nella vita il consumo di almeno una sostanza illecita (tra cannabis, cocaina, eroina, allucinogeni e/o stimolanti), mentre il 27 per cento lo ha fatto nel corso dell’ultimo anno. Tra tutte le sostanze illegali consumate, la cannabis è quella maggiormente utilizzata (quasi il 27 per cento), seguita da stimolanti (2,6 per cento), cocaina (2,5 per cento) allucinogeni (2,2 per cento) ed eroina (1 per cento). Ma il dato di maggiore allarme è costituito dalla percentuale di coloro che hanno utilizzato sostanze psicoattive “sconosciute”, ignorandone cioè la composizione e gli effetti e, quindi, aumentando i potenziali rischi correlati al consumo. Si stima, infatti, che circa il 2,1 per cento degli studenti di 15-19 anni abbia assunto almeno una volta nella vita sostanze psicoattive senza sapere di cosa si trattasse. Il 52 per cento circa di questi studenti le ha assunte per non più di 2 volte, il 26 per cento ha ripetuto l’esperienza oltre 10 volte.
Il rapporto giovani-droghe va innanzitutto considerato nella sua ampiezza e nella sua delicatezza. Si può decidere di affrontarlo “a gamba tesa”, come avviene ormai ciclicamente nei licei italiani dove le forze dell’ordine entrano a scuola, fanno perquisizioni e addirittura arresti davanti ai compagni. Ma così non si fa che creare turbamento negli studenti e produrre polveroni mediatici che – stigmatizzata la questione – impediscono riflessioni ponderate e conseguenti provvedimenti razionali. Si tratta, in ogni caso, di operazioni inutili e in alcuni casi addirittura letali: come è successo nel febbraio del 2017 a uno studente di 16 anni di Lavagna che, arrestato dalla guardia di Finanza all’uscita dalla scuola per una piccola quantità di hashish, è stato portato a casa per una perquisizione e lì, sotto gli occhi dei militari e dei suoi genitori, si è lanciato dal balcone, togliendosi la vita.
In un quadro come questo, è chiaro che il tema va affrontato in maniera diversa. È autolesionistico rimandare ancora interventi minimi di riduzione del danno, con unità mobili che, oltre a offrire servizi come quello del drug checking (ovvero dell’analisi delle sostanze che si intende assumere), costituiscono un primo contatto tra possibili consumatori problematici e operatori specializzati. Ed è urgente lavorare finalmente all’approvazione di una legge che legalizzi la produzione, la vendita e il consumo di cannabis e che decriminalizzi l’uso di tutte le altre sostanze illecite. Per il bene dei giovani, per la salute dei cittadini e per ridurre i danni sul piano sociale.

Per il bene della giustizia

Accanto alla questione sanitaria (relativa alla cannabis medica) e a quella sociale (inerente i pericoli a cui il proibizionismo espone i giovani) il settore che subisce i danni più ingenti di un approccio punitivo sulle sostanze è quello della giustizia. Non è un caso che a sostenere le ragioni della legalizzazione, o della decriminalizzazione, negli ultimi tempi siano sempre più i magistrati e i vertici delle forze dell’ordine e delle istituzioni maggiormente impegnate nel campo. Nel giugno 2016 la Direzione nazionale antimafia ha dato parere favorevole al disegno di legge sulla legalizzazione promosso dall’intergruppo parlamentare, e che di lì a poco sarebbe arrivato in Aula alla Camera. Questa l’argomentazione: «La legalizzazione, se correttamente attuata, potrebbe portare […] a un vero rilancio dell’azione strategica di contrasto al narcotraffico e ai suoi effetti sulla salute pubblica, sull’economia e sulla libera concorrenza». Un giudizio altrettanto autorevole è giunto da Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione: «Fino a poco tempo fa ero assolutamente contrario all’idea della legalizzazione perché non mi convincevano gran parte degli argomenti. Adesso ho un po’ cambiato posizione: credo soprattutto che una legalizzazione intelligente possa evitare il danno peggiore per i ragazzi, cioè entrare in contatto con ambienti della criminalità». Infine, in questo flusso di ragionevoli pareri, si collocano le dichiarazioni di Felice Romano, segretario del Siulp, il più grande sindacato di polizia: «Quali risultati ha ottenuto il proibizionismo nel contrasto al traffico e al consumo di droghe leggere? Nessuno. Anzi: il consumo è aumentato e l’età dei ragazzi che ne fanno uso si è abbassata. Non solo: a fronte di un massiccio impiego di forze dell’ordine e alle risorse spese, non c’è stato nessun effetto».
A leggere i dati dell’impatto del proibizionismo sul sistema della giustizia, così come riportati dalla Relazione annuale al Parlamento del Dipartimento per le politiche antidroga, l’inefficacia di tale approccio appare incontrovertibile. I dati dimostrano che il meccanismo in atto nel nostro Paese punisce i consumatori e i piccoli spacciatori invece dei grandi narcotrafficanti e offre, in definitiva, un servizio a questi ultimi, ripulendo il mercato dai cosiddetti pesci piccoli. Essi evidenziano, inoltre, che il meccanismo punitivo è diretto in particolare verso la meno dannosa delle sostanze: la cannabis, appunto. Infatti, l’80,4 per cento delle segnalazioni ai prefetti per uso di stupefacenti riguarda soggetti colti in possesso di cannabinoidi (nel 71,3 per cento dei casi di età inferiore ai 30 anni; ed è in costante aumento la percentuale di minorenni). Anche tra le operazioni di sequestro, la cannabis la fa da padrona: il 91,4 per cento delle sostanze sequestrate è costituito da suoi derivati.
La stessa tendenza caratterizza il resto d’Europa, dove ogni anno c’è oltre un milione di sequestri di sostanze illecite. Per la maggior parte si tratta di piccole quantità di droga confiscate ai consumatori, benché le partite di diversi chilogrammi trovate nella disponibilità di trafficanti e produttori rappresentino un’elevata percentuale della quantità complessiva di stupefacenti in sequestro. La cannabis, oggetto di oltre il 70 per cento dei sequestri effettuati in Europa, è la sostanza confiscata con maggiore frequenza. La cocaina occupa il secondo posto (9 per cento), seguita dalle amfetamine (5 per cento), dall’eroina (5 per cento) e dall’Mdma (2 per cento).

Tornando all’Italia, anche per i reati di traffico illecito di sostanze (art. 73 Dpr 309/90) e di associazione finalizzata al traffico (art. 74 Dpr 309/90) la maggior parte delle denunce è associata a marijuana, hashish e piante di cannabis (49,5 per cento). La cocaina è coinvolta nel 33,3 per cento dei casi, l’eroina nell’11,2 per cento e le droghe sintetiche nell’1,2 per cento dei casi.
Se si ragionasse tenendo conto di questi dati, probabilmente si giungerebbe in tempi brevi all’adozione di misure – graduali, per carità! e caute, mi raccomando! – in grado di sperimentare un regime di legalizzazione. Ma come spesso accade, già si vedono le avvisaglie di una rinnovata restaurazione ideologica e già si sente dire che «ben altre sono le priorità» (economiche, sociali e perfino civili). Ciò che sembra manifestarsi e crescere è qualcosa di molto simile alla Gran bonaccia delle Antille: l’irriducibile doroteismo caratteriale e culturale della mediocrità nazionale, il torpido perbenismo del progresso senza avven

ture e dell’opportunismo morale come filosofia dell’esistenza. L’intelligenza e la logica suggeriscono che non c’è ragione al mondo – sotto il profilo scientifico e sociale, giuridico e sanitario – per non prevedere per la cannabis un regime di legalizzazione. Un regime, cioè, di regolamentazione della produzione, del commercio e del consumo di hashish e marijuana, all’interno di un sistema di vincoli e limiti, di tassazione e controllo. Ovvero, il medesimo regime al quale vengono sottoposte sostanze come alcol e tabacco, il cui abuso determina conseguenze assai più gravi ed effetti assai più nocivi di quelli prodotti dall’abuso di cannabis tra i consumatori in età adolescenziale. Dunque, è difficile non vedere la ragionevolezza di una simile soluzione e, ancor prima, l’indifferibile necessità di una sperimentazione che vada in quel senso. E invece qui intervengono le remore più moralistiche e gli scrupoli della più untuosa doppiezza, come quelli che: «Ma l’alcol appartiene alla nostra tradizione culturale». Insomma, la cirrosi epatica come patrimonio folklorico.