È un idolo perché «ha sofferto come noi», dicono per le strade del Cairo. Il fuoriclasse del Liverpool, simbolo di riscatto per un intero Paese, è protagonista di un’opposizione “discreta” al regime di al Sisi, con ingenti donazioni ma anche con pubbliche denunce

A metà marzo, alle presidenziali egiziane, Mohammed Salah è arrivato secondo. Dopo al-Sisi e prima di Moussa Mustafa Moussa, candidato fantoccio di elezioni farsa, che di voti ne ha presi meno di 700mila. Quasi due milioni di egiziani, il 7% degli aventi diritto, hanno annullato la scheda; di questi, circa un milione secondo fonti della stampa egiziana, ha scritto il suo nome a penna sulla scheda: Mo Salah. Sommati al 59% di astensioni, hanno dato uno spaccato della protesta interna al regime del presidente golpista.

Una protesta silenziosa a causa della repressione che da luglio 2013 strangola stampa indipendente, associazioni di base, sindacati autonomi, gruppi ultrà, partiti di opposizione. Se si legge così la presunta apatia del popolo egiziano dopo la rivoluzione di piazza Tahrir, il giocatore del Liverpool diventa quasi un modello interpretativo. Figura affatto istituzionale, restia a sbilanciarsi sul piano politico, Salah è protagonista di gesti, diretti e indiretti, che assumono la forma di implicita critica al regime.

La «quarta piramide», come lo chiamano gli egiziani, calciatore africano dell’anno, autore della storica qualificazione dell’Egitto ai Mondiali in Russia (la prima dopo 28 anni) e primo marcatore nella Premier league, a Mo Salah è attribuito di tutto: è il volto rassicurante dell’islam in un’Europa sempre più islamofoba (con la tifoseria dei Reds che allo stadio canta «Siamo tutti musulmani»), è l’orgoglio nazionale in periodo di crisi nera, è la periferia povera che si fa mito. È ovunque: nei murales al Cairo, accanto ai volti di cantanti leggendarie, come l’egiziana Umm Khultum e la libanese Fairuz, o del Nobel per la letteratura Mahfouz; nelle magliette e i poster venduti nei negozi di chincaglierie; nelle lampade tradizionali del Ramadan.

È l’idolo perché «ha sofferto come noi», dicono per le strade: nato nel 1992 nel villaggio di Nagrig nel Delta del Nilo, camminava ogni giorno due ore per andare ad allenarsi. La sua famiglia era povera, i genitori non si sono potuti permettere di dargli un’educazione superiore e lui si è dato al pallone. Fino alla gloria che sta da anni riversando su Nagrig, occulta forma di critica a un governo incapace di fornire servizi, sviluppo, occupazione alle zone più marginalizzate del Paese. Con un’inflazione alle stelle che mangia i magri salari dei lavoratori e l’austerity imposta dal Fondo monetario internazionale che erode i sussidi alle classi basse, Salah ha…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA