Intenzionalmente o meno, da oltre sei anni l’Onu ha un ruolo determinante e non molto neutrale nel conflitto siriano. Prima con gli aiuti umanitari, poi con i negoziati di pace e ora con la ricostruzione che è il nuovo grande affare per il regime di Damasco

In Bosnia, un colpo di mortaio sul mercato di Sarajevo cambiò il corso della guerra, convincendo infine la comunità internazionale a intervenire. In Siria, i siriani ti dicono: «Oggi la tregua tiene, c’è solo un po’ di artiglieria». Per molti, in Siria il mondo è rimasto a guardare. Era il 2012, eravamo nel mezzo della battaglia di Aleppo, eravamo sotto bombardamento quando una bambina notò il mio telefono, e mi chiese: «Hai il numero dell’Onu?». Ma in realtà, in questi anni in Siria l’Onu non è stata affatto marginale. Anzi. Intenzionalmente o no, è stata la migliore alleata di Assad.

Il suo intervento è cominciato con gli aiuti umanitari. Perché l’Onu non solo ha comprato beni e servizi per milioni e milioni di dollari dai più controversi affaristi siriani, come Rami Makhlouf, foraggiatore di alcune tra le più feroci milizie lealiste: ma ha deciso di cooperare esclusivamente con Assad. Si è giustificata sostenendo che per statuto, è tenuta a cooperare con l’unico governo riconosciuto, che è appunto il governo di Damasco. E quindi, nonostante due sue risoluzioni, la 2165 e la 2258, l’abbiano poi apertamente autorizzata a operare indipendentemente dal consenso di Assad, ha rinunciato, per esempio, a raggiungere Deir Ezzor, in cui erano in trappola 200mila civili, perché secondo Assad l’aeroporto non era sicuro. Anche se ogni giorno, intanto, atterravano dieci dei suoi aerei per rifornire i suoi soldati.

L’Onu non solo ha consegnato gli aiuti umanitari sempre e solo ad Assad. Ma a lungo, non ha mai neppure tracciato i propri convogli. Non si è mai neppure chiesta dove finissero. Per mesi, ad Aleppo l’unico luogo in cui si è visto il logo dell’Unhcr è stato il mercato nero. E d’altra parte. Dopo quattro anni di assedio, nel 2016 l’Onu è infine entrata a Daraya: ma per distribuire zanzariere contro la malaria. L’ultimo caso era stato nel 2009.

E per Assad, tutto questo è stato perfetto. Perché Assad ha seguito dall’inizio una strategia molto chiara e precisa: presentarsi al mondo come l’unico possibile garante della stabilità. Con i suoi bombardamenti, ha sistematicamente raso al suolo tutto quello che i ribelli hanno conquistato, metro a metro, per impedire che si radicassero delle istituzioni alternative a quelle di Damasco, delle forme efficaci di autogoverno. Allo stesso tempo, ha cercato di indurre i siriani a rifugiarsi nelle aree sotto il suo controllo, assicurando cibo, medicine, elettricità, gasolio: assicurando una vita normale. Ma senza il sostegno esterno, questa strategia non avrebbe mai funzionato. Perché l’economia della Siria non esiste più: parliamo di un Paese in cui il Pil è crollato dell’80 per cento. Senza Hezbollah, l’Iran, e poi la Russia, il fronte avrebbe ceduto.

Ma senza l’Onu, avrebbe…

L’articolo di Francesca Borri  prosegue su Left in edicola


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