Il secondo Congresso di antropologia medica – che si svolge a Perugia dal 14 al 16 giugno – dedica le giornate a Tullio Seppilli, tra i più convinti sostenitori e attivi diffusori dell’antropologia in Italia, a poco meno di un anno dalla sua scomparsa. Il titolo, Un’ antropologia per capire, per agire, per impegnarsi, che è una sua frase, ben rappresenta la lezione di un intellettuale che sentiva la necessità e l’urgenza di tradurre la riflessione antropologica in un agire sulla realtà, trasformando la ricerca in impegno sociale.
«Tullio Seppilli non era solo un accademico – racconta Giuseppe Schìrripa, docente di antropologia all’Università La Sapienza di Roma -. Era un grande intellettuale e un grande studioso che ha allargato i confini dell’antropologia portandola verso aree innovative, ma era anche una persona che svolgeva la sua ricerca pensando ad una prassi politica. Seppilli è stato un esponente importante del Pci umbro, fortemente impegnato in politica e nelle lotte per la chiusura dei manicomi.
Ebreo, nato nel 1928 a Padova, figlio di Alessandro, igienista e sindaco di Perugia per il Psi dal 1953 al 1964, e di Anita Schwarzkopf, nota antropologa, a 10 anni si trasferisce in Brasile con i genitori a causa delle leggi razziali e vi rimane fino al 1948.
«In Brasile aderisce al partito comunista – continua Schìrripa -. In quegli anni frequenta l’università dove diventa allievo dell’antropologo Claude Bastide e altri antropologi francesi che in quel periodo insegnavano in Brasile, come Levi Strauss. Comincia a fare ricerca e a lavorare. Negli anni brasiliani fa ricerche sul sincretismo religioso e tra le sue prime pubblicazione, ci sono quelle che riguardano le chiese afrobrasiliane. La vocazione politica e quella antropologica, come ci dice la sua storia, viaggiano insieme, non possono essere disgiunte: nella sua visione dell’antropologia, il marxismo, quello gramsciano, è la chiave fondamentale per comprendere la società.
La sua è un’antropologia fortemente marxista, la chiamerei una visione del mondo, ma ancora meglio una chiave analitica per comprendere il mondo dal punto di vista antropologico. Ovviamente arricchita da altri stimoli perché una persona apertissima, affatto dogmatica. Seppilli crede davvero che l’intellettuale marxista, e quindi l’antropologo, lavori per il cambiamento del mondo, non solo per la sua comprensione. Non a caso quando torna in Italia diventerà assistente e collaboratore di De Martino. Anche De Martino in quegli anni, prima della rottura con Togliatti che lo porterà ad abbandonare il Pci nel 1956, era fortemente impegnato in politica come segretario del Pci di Foggia».
Dal 1955 insegna Antropologia culturale all’Università di Perugia e qui, nel 1956, crea l’Istituto di etnologia e antropologia culturale, che dirigerà fino al 1999 e che sarà per decenni un crocevia di iniziative e un punto di riferimento per numerosissimi studenti e studiosi. La sua elaborazione teorica si concentra sui problemi che riguardano il rapporto tra il “biologico” e il “sociale”. L’antropologia medica di Seppilli si occupa della dimensione sociale e antropologica della salute, della malattia, della cura e di come culture differenti abbiano sviluppato conoscenze e pratiche diverse.
«Seppilli – continua l’antropologo – sostiene che non possiamo dimenticare quelle che sono le basi biologiche dell’essere umano ma nello stesso tempo non si può ridurre la malattia semplicemente a danno biologico. È necessario comprendere come la malattia viene elaborata, dal punto di vista culturale, da parte delle singole società. Ogni società ha la sua interpretazione della causa di malattia e da questa ne consegue la terapia. Le condizioni sociali influiscono sui processi biologici e la stessa efficacia della terapia ha a che fare con i processi simbolici, non solo con i processi fisiologici. Processi simbolici che attivano la capacità di autoguarigione del corpo Il rapporto tra l’aspetto biologico, quello sociale e culturale è un rapporto dialettico, di continua interazione».
Il discorso antropologico di Seppilli si rivolge agli uomini, cercando di comprendere come essi diano senso alle loro azioni. «La cultura – conclude Schìrripa – è la possibilità di conferire senso a quello che gli uomini fanno, qualunque cosa sia. De Martino quando ci parla del lamento funebre, racconta di un modo per dare valore, senso alla morte. Una crisi che non ha soluzione ma che viene trasformata in un momento che crea valore. Quello che cerchiamo di fare nel nostro lavoro di antropologici è capire il senso delle azioni degli uomini, capire perché. Questo, secondo me, vale in generale per tutta l’antropologia, non solo per Seppilli: capire cosa significa essere umani, cosa significa il mondo intorno a noi, cosa significa ciò che noi facciamo nel mondo. L’uomo si muove in quanto animale sociale e in quanto crea una serie di significati».