Il parere del presidente della Carta di Roma Valerio Cataldi sul linguaggio usato dalla politica nei due mesi di campagna elettorale. E che i media riproducono acriticamente

La parola che ha preceduto la crisi della nave Aquarius ed il rifiuto senza precedenti delle autorità italiane ad accogliere i naufraghi nei porti della penisola, è la parola “pacchia”. La pronuncia il neoministro dell’Interno Matteo Salvini in piena campagna elettorale per le amministrative. È il 2 giugno, in una piazza di Vicenza, Salvini dice «per i clandestini è finita la pacchia». È uno slogan, pura propaganda. Una frase che contiene “clandestini”, il vecchio termine preferito dagli spaventatori di professione per criminalizzare i migranti e la nuova parola “pacchia” che la Treccani ci ricorda essere un «deverbale di pacchiare, “mangiare con ingordigia”, usato per indicare una condizione di vita facile e spensierata». In una sola frase c’è il corredo completo della mistificazione e della distorsione della realtà che la politica produce costantemente quando parla di migranti. Un linguaggio che raramente viene riprodotto in forma critica dal giornalismo italiano. È un sistema che produce risultati, lo abbiamo visto nelle elezioni del 4 marzo che sono state precedute da una campagna elettorale di due mesi, esattamente 59 giorni, durante i quali sono comparse sui giornali parole che sembravano scomparse. La parola “negro” ad esempio, scritta 57 volte sui giornali. In due mesi, fa una volta al giorno. Ed è un record rispetto agli anni precedenti. In tutto il 2016 era comparsa 52 volte, mentre nel 2017 è stata scritta 104 volte, quasi il doppio ma in 12 mesi, non in 2. La comparsa della parola negro è…

Valerio Cataldi è presidente dell’associazione Carta di Roma che studia il rapporto tra informazione e immigrazione

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