Il leader laburista coniuga un saldo internazionalismo con una forte critica a dumping sociale e globalizzazione, cause di guerre tra poveri. Puntando il dito, diversamente dai sovranisti, contro gli imprenditori che sfruttano la manodopera a basso costo

Quando è stato eletto leader del Partito laburista, il 12 settembre 2015, come primo atto Jeremy Corbyn ha partecipato ad un evento di solidarietà nei confronti dei rifugiati: il “Refugee welcome”. Nulla di sorprendente per uno storico attivista dei diritti civili, sin dai tempi delle battaglie contro l’apertheid in Sud Africa. D’altronde Corbyn viene eletto sin dal 1983 in uno dei collegi più multietnici del Regno Unito, collegio, quello di Islington North, che tuttavia si riconosce con maggioranze bulgare nel più classico degli inglesi: rossiccio di capelli (una volta) e chiarissimo di carnagione.

Viene un po’ da ridere, dunque, quando, nel tentativo di banalizzarne le posizioni politiche, si cerca di dipingere il leader laburista come un sovranista o, peggio, un isolazionista, quando, in maniera persino naif, Corbyn è il più classico degli internazionalisti. Tanto più che è stato uno dei pochi leader socialisti europei a esprimersi circa lo scandalo del porto di Calais dove, in accordo tra l’allora Primo ministro David Cameron, conservatore, e l’allora presidente della Repubblica Francois Hollande, socialista, centinaia e centinaia di migranti venivano bloccati per mezzo di muri di cinta, costruiti dalle autorità, e lasciati in attesa di una decisione sul loro destino al freddo, in campi di fortuna.

Certo, questa sua attenzione per i rifugiati e i migranti (che, come viene sottolineato nel manifesto del Labour, non sono la stessa cosa) non vuol dire che nella sua proposta politica non vi sia una forte critica alla globalizzazione, e in particolare al dumping sociale, con cui il capitalismo moderno mette i lavoratori gli uni contro gli altri, in quella che Corbyn definisce…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola


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