Andrés Manuel López Obrador promette di «fare la storia» alle elezioni messicane. Rovesciando l’élite corrotta e cercando una tregua coi signori della droga. Ma il suo progetto progressista dovrà fare i conti con l’ingombrante vicino Donald Trump

#JuntosHaremosHistoria, insieme faremo la storia, è l’hashtag più popolare in queste ultime settimane di campagna elettorale in Messico. Riprende il nome dell’alleanza progressista creata dal candidato leader Andrés Manuel López Obrador, detto “Amlo”, guidata dal suo partito Morena. Alle elezioni messicane del 1 luglio, i sondaggi lo danno per certo vincitore. La sua promessa è quella «di fare cambiamenti drastici», di dare impeto alla «quarta trasformazione del Messico dopo l’indipendenza nel 1821, la guerra civile negli anni 1850 e 1860 e la rivoluzione iniziata nel 1910». Una rivoluzione «per rovesciare la mafia del potere e l’élite corrotta», contro i poteri della stampa di regime.

Morena, acronimo di Movimento rigenerazione nazionale, ma anche il nomignolo dei messicani dalla pelle scura del sud campesino (morenos), è un “movimento”, non un semplice partito. Andrés Manuel López Obrador, cerca un consenso trasversale, dalla piccola borghesia ai campesinos, senza disdegnare le élite urbane. A sud ha piani per grandi infrastrutture, promettendo di creare nuove strade in Oaxaca, uno Stato montuoso con un tasso di povertà del 70%, creare una ferrovia da Quintana Roo al Chiapas, e realizzare un corridoio stradale e ferroviario attraverso l’Istmo di Tehuantepec, in Oaxaca e Veracruz, pagato con prestiti dalla Cina. Piace anche al nord industriale per la visione nazionalista, che apprezza che il Messico venga prima rispetto al vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti, mentre il tema dell’indipendenza energetica e dell’autosufficienza alimentare strizza l’occhio sia agli studenti che agli industriali.

Contro l’appeal di Obrador, non ha nessuna chance il candidato del Pri, Jose Antonio Meade. A danneggiarlo è la forte impopolarità e le accuse di corruzione dall’attuale presidente e compagno di partito Enrique Peña Nieto. Nell’ultima settimana ha recuperato qualche punto il candidato del Pan, Ricardo Anaya, 39 anni, che ha accorciato il distacco da Obrador. Che ora punta tutto sugli indecisi. La sua immagine di “uomo nuovo” affascina un Paese stanco e spossato da una ripresa lentissima e violenza diffusa. Anche se Obrador non è un neofita della politica. Ha governato l’immensa Città del Messico tra il 2000 e il 2005, prima di tentare due corse presidenziali infruttuose con il Partito della rivoluzione democratica di centrosinistra, nel 2006 e nel 2012.

Nel frattempo, secondo il Dipartimento di Stato americano in Colombia sta crescendo la presenza del cartello di Sinaloa. Un’espansione geografica che dimostra l’ottima salute dei narcos messicani, sostenuti da un aumento dei consumi di cocaina in Usa e America e dal boom di produzione in Colombia. E con gli affari cresce anche la violenza. Circa 25.340 messicani sono stati uccisi nel 2017. Nel 2018 potrebbero superare i 30.000. La gran parte di questi omicidi è legata al traffico di droga, al controllo delle rotte per gli Stati Uniti e a criminalità comune come il furto di benzina, diventato in Stati come Jalisco e Michoacán una delle principali fonti di guadagno delle gang criminali locali. Il Paese è esasperato da questa ondata ininterrotta di violenza. Per Obrador c’è solo una via di uscita…

L’articolo di Emanuele Bompan prosegue su Left in edicola


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