Un nuovo tassello nel processo per omicidio preterintenzionale che vede dei militari coinvolti. «Una pratica non regolare quella del bianchetto» ha detto un carabiniere testimone

Per leggere il nome di Stefano Cucchi nel registro dei fotosegnalamenti della Compagnia Casilina dei carabinieri bisogna rimuovere una striscia di bianchetto. Una pratica non regolare emersa dalle testimonianze dell’udienza di oggi, 11 luglio, del processo per l’omicidio preterintenzionale del geometra romano. Uno dei temi del processo Cucchi è proprio quello della cancellazione delle tracce del passaggio del giovane arrestato poco prima in un parco del Tuscolano, nella caserma dei carabinieri dove, secondo l’accusa sarebbe stato pestato e un fotosegnalamento avrebbe immortalato l’opera di chi lo aveva ridotto così.

Prima del Cucchi-bis l’operato dei carabinieri era come avvolto in un cono d’ombra finché un fascicolo di 50 pagine scritto dalla polizia giudiziaria non ricostruì le prime tappe del calvario di un arrestato per spaccio che, secondo l’accusa, morirà sei giorni dopo, nascosto nel letto di un “repartino” penitenziario del Pertini, per le conseguenze di quell’impresa compiuta da uomini in divisa.
Nel documento della Procura, alla base di questo processo, si sottolinea che «fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla Compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento». Poi si aggiunge che nel verbale di arresto non si diede atto del mancato fotosegnalamento e che Stefano Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale perpetrato nei locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina, né fu denunciato per tale delitto. Omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia». Infatti, il primo processo si concentrò su alcune guardie carcerarie e sul personale dell’ospedale Pertini.

Dopo la conferma, nelle recenti udienze, che i registri della Caserma di Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte in guardina, furono manipolati per minimizzare le condizioni, il particolare della cancellazione del bianchetto è stato ribadito da alcuni militari dell’Arma in servizio il 15 ottobre 2009, data dell’arresto di Cucchi, ascoltati oggi alla Prima Corte d’Assise di Roma nell’udienza del processo che vede imputati cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale, mentre altri due appartenenti all’Arma sono accusati di calunnia e falso.
Sul registro dei fotosegnalamenti, un rigo è cancellato con il bianchetto: sotto alla casella con il nome di Misic Zoran si intravede, eliminato successivamente, quello di Stefano Cucchi. «Non è una pratica normale, può capitare che il fotosegnalamento non avvenga per problemi ai sistemi informatici, ma in genere si cancella il nome con una riga orizzontale, con la penna rossa, non con il bianchetto», ha spiegato uno dei carabinieri ascoltati. Una tesi confermata anche da un altro suo collega ascoltato in udienza. Nel registro ci sarebbero comunque altri nomi cancellati parzialmente con bianchetto ma il pm Giovanni Musarò ha fatto notare che quello di Cucchi è interamente cancellato. I due testi hanno detto di non essersi accorti della manovra del bianchetto e di non aver fatto caso alle condizioni dell’arrestato. Se il fotosegnalamento non viene effettuato è necessario darne atto al superiore gerarchico e avvertire il piantone. Se non avviene il fotosegnalamento ci si mette in contatto con un’ altra compagnia per effettuarlo. E non c’è il bianchetto nell’ufficio perchè non è in dotazione, in quanto non utilizzabile.

Così i due testi a conferma della ricostruzione che ha consentito, a otto anni dai fatti, questo processo: il pestaggio avvenne in un arco temporale certamente successivo alla perquisizione domiciliare eseguita nell’abitazione dei genitori dello stesso Cucchi, un pestaggio che «fu originato da una condotta di resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia Carabinieri Roma Casilina», si legge nel documento. Secondo la ricostruzione una volta nella caserma Casilina «fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dei carabinieri appartenenti al comando stazione Appia». In particolare nella ricostruzione decisa dai carabinieri «non si diede atto della presenza dei carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo nella fase dell’arresto di Stefano Cucchi. Il nominato dei due militari infatti non compariva nel verbale di arresto, pur essendo gli stessi pacificamente intervenuti già al momento dell’arresto e pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi».

Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, è stato al centro della seconda parte dell’udienza. Nel 2013 fu spostato di mansione e destinato ad un incarico in ufficio dopo una segnalazione della ex moglie, preoccupata perché potesse compiere con la pistola gesti estremi verso sé stesso o la famiglia. La ex moglie dell’imputato riferì a un superiore di D’Alessandro un episodio durante la loro fase di separazione in cui l’uomo avrebbe minacciato il suicidio con la pistola. Il maresciallo Coscina, ascoltato anche lui, provò a suggerire al D’Alessandro di essere meno duro con la moglie e si sentì rispondere, più o meno, «tu non puoi capire perché non sei sposato, con le mogli serve carota e bastone». Spesso dalla casa di D’Alessandro si sentivano le sue urla contro la moglie e Coscina addirittura si rivolse al comandante di compagnia per trasferirlo dopo che la donna gli confessò di aver paura del marito soprattutto perché aveva un’arma. E la poggiava sul tavolo mentre cenavano.

La prossima udienza vedrà al banco dei testimoni le parti lese: i genitori e la sorella di Stefano Cucchi: Giovanni, Rita, Ilaria che da quel giorno di ottobre del 2009 hanno visto la loro vita deformata dalla lunghissima battaglia per verità e giustizia. Nel primo processo erano imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti della penitenziaria; per accuse terribili, contestate a vario titolo e secondo le rispettive posizioni, ovvero abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso d’autorità. Nella prima indagine, l’ipotesi accusatoria fu che Cucchi era stato pestato nelle celle del tribunale e in ospedale era stato abbandonato e lasciato morire di fame e sete. Nel processo di primo grado, però, i giudici arrivarono a un’ipotesi diversa: nessun pestaggio, ma morte per malnutrizione. Unici colpevoli furono dichiarati i medici – per omicidio colposo – con assolti invece infermieri e agenti penitenziari.

Davanti ai giudici d’appello, tutto fu ribaltato: tutti gli imputati furono assolti, senza distinzione di posizioni. E la Cassazione arrivò alla parziale cancellazione di questa sentenza e l’ordine di un appello-bis per omicidio colposo per i medici. La conclusione fu una nuova assoluzione (nel frattempo diventò definitiva l’assoluzione di agenti e infermieri), e un nuovo annullamento in Cassazione (ci sarà un terzo processo d’appello ancora in corso). L’ostinazione di Ilaria Cucchi e della sua famiglia portarono poi all’inchiesta-bis. Accanto a loro, da anni, pezzi di società civile e di associazionismo, come gli attivisti di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, che seguono e documentano questo e altri processi.