Il 18 luglio del 1918 nasceva Nelson Mandela. Abbiamo voluto utilizzare lo spunto del centenario per tornare a rileggere la sua lezione umana e politica, per capire che cosa ne resta nel Sudafrica di oggi lacerato da molte contraddizioni. Abbiamo sentito l’esigenza di tornare a riflettere sulla sua storia di coraggioso riformatore e «resistente» (come lo chiamava Todorov), per capire come sia riuscito a sopravvivere a 27 anni di carcere duro, impedendo ai suprematisti bianchi che l’avrebbero voluto far sparire nel nulla, di ingabbiare il suo pensiero. Colpisce che in quei lunghissimi anni di detenzione e isolamento Mandela non perse mai la fiducia nell’umano continuando così a lottare per il cambiamento. «Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe a cui appartengono», diceva. Si nasce uguali diremmo oggi, perché uguale per tutti gli esseri umani è la dinamica della nascita. E universali sono la capacità di immaginare, gli affetti e i valori umani, qualunque siano le caratteristiche somatiche o la provenienza geografica e culturale dei singoli individui. Mandela rifiutò il veleno del risentimento non per un astratto credo religioso o morale, ma perché sapeva che demonizzare l’avversario non aiuta a vincerlo ma distrugge la propria identità. Per questo, prima di tutto, lottò per non cadere nella trappola dell’odio nonostante l’oppressione, le umiliazioni, l’ingiustizia. Ma fin da giovanissimo, da avvocato, combatté con tutte le sue forze le istituzioni che imponevano la segregazione razziale. Come è stato notato, Madiba non era un pacifista ma un uomo di pace. Per questo adottò la strategia della non violenza, ma non in maniera esclusiva (diversamente da Gandhi non era un asceta). Quando in cambio della sua liberazione gli fu chiesto di obbligare l’African national congress ad abbandonare la violenza lui rispose di no. Non era possibile fin quando non fosse stato riconosciuto il suffragio universale. Da partigiano sapeva che in quella situazione in cui una minoranza bianca vessava e sfruttava la maggioranza nera fin dal lontano 1652 bisognava reagire e difendersi, fino a quando non fossero state abolite le odiosi leggi razziali che imponevano l’apartheid in Sudafrica. Mandela aveva chiaro che l’obiettivo più grande era la liberazione. Aveva una limpida visione (quella che manca alla maggior parte dei politici di oggi), sognava che persone di diversa provenienza ed estrazione sociale potessero vivere insieme in una società libera, democratica, progressista. Sapeva anche che la strada per realizzare il suo «raimbowism» era in salita. E che non bastava aver conquistato la libertà perché essa fosse pienamente realizzata. «La verità è che non siamo ancora liberi, abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi, il diritto di non essere oppressi. Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo di una lunga strada che sarà ancora più lunga e difficile, perché la libertà non è solo spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri», scriveva nel Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli, 1994). «Assieme alla libertà vengono le responsabilità». E di questo ha scritto nella seconda parte della sua autobiografia La sfida della libertà (Feltrinelli, ediz. italiana 2018). Ma è un filo rosso che percorre anche le lettere che ora escono in una edizione internazionale, pubblicata da Il Saggiatore in Italia. La trasformazione della società di cui parlava Marx, per Madiba nasceva prima di tutto da una trasformazione interiore, personale. Nonostante errori e fallimenti, ciò che contraddistingue Mandela è la coerenza fra vita e prassi. La lotta contro le disuguaglianze sociali andava di pari passo con l’affermazione del valore primario della cultura e del diritto all’istruzione. Tutto questo ha fatto di lui uno statista e un politico la cui lezione è tutta da riscoprire oggi. L’agiografia non è il nostro forte e non vogliamo certo farne un santo o un granitico eroe. In questo sfoglio oltre a ripercorrere i punti alti del suo pensiero e della sua prassi politica, cerchiamo di analizzarne anche alcuni limiti. A cominciare da quella fedeltà alle vecchie amicizie che lo portarono ad assegnare posti chiave a persone non competenti né grate, fino all’aver rinunciato una volta diventato presidente a nazionalizzare le imprese perché il Sudafrica era ancora dipendente dagli investimenti stranieri. Per quanto il grande processo di riconciliazione nazionale da lui avviato non abbia sortito tutti gli effetti sperati, è innegabile che Madiba sia riuscito ad evitare che scoppiasse una guerra civile in un Paese massacrato dal razzismo e dalla xenofobia. Mandela è l’uomo che nonostante la violenza subita ha saputo fermare la spirale di violenza. Anche per questo ha ancora molto da insegnarci oggi. [su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola

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Il 18 luglio del 1918 nasceva Nelson Mandela. Abbiamo voluto utilizzare lo spunto del centenario per tornare a rileggere la sua lezione umana e politica, per capire che cosa ne resta nel Sudafrica di oggi lacerato da molte contraddizioni. Abbiamo sentito l’esigenza di tornare a riflettere sulla sua storia di coraggioso riformatore e «resistente» (come lo chiamava Todorov), per capire come sia riuscito a sopravvivere a 27 anni di carcere duro, impedendo ai suprematisti bianchi che l’avrebbero voluto far sparire nel nulla, di ingabbiare il suo pensiero. Colpisce che in quei lunghissimi anni di detenzione e isolamento Mandela non perse mai la fiducia nell’umano continuando così a lottare per il cambiamento. «Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe a cui appartengono», diceva. Si nasce uguali diremmo oggi, perché uguale per tutti gli esseri umani è la dinamica della nascita. E universali sono la capacità di immaginare, gli affetti e i valori umani, qualunque siano le caratteristiche somatiche o la provenienza geografica e culturale dei singoli individui. Mandela rifiutò il veleno del risentimento non per un astratto credo religioso o morale, ma perché sapeva che demonizzare l’avversario non aiuta a vincerlo ma distrugge la propria identità. Per questo, prima di tutto, lottò per non cadere nella trappola dell’odio nonostante l’oppressione, le umiliazioni, l’ingiustizia. Ma fin da giovanissimo, da avvocato, combatté con tutte le sue forze le istituzioni che imponevano la segregazione razziale.

Come è stato notato, Madiba non era un pacifista ma un uomo di pace. Per questo adottò la strategia della non violenza, ma non in maniera esclusiva (diversamente da Gandhi non era un asceta). Quando in cambio della sua liberazione gli fu chiesto di obbligare l’African national congress ad abbandonare la violenza lui rispose di no. Non era possibile fin quando non fosse stato riconosciuto il suffragio universale. Da partigiano sapeva che in quella situazione in cui una minoranza bianca vessava e sfruttava la maggioranza nera fin dal lontano 1652 bisognava reagire e difendersi, fino a quando non fossero state abolite le odiosi leggi razziali che imponevano l’apartheid in Sudafrica. Mandela aveva chiaro che l’obiettivo più grande era la liberazione. Aveva una limpida visione (quella che manca alla maggior parte dei politici di oggi), sognava che persone di diversa provenienza ed estrazione sociale potessero vivere insieme in una società libera, democratica, progressista. Sapeva anche che la strada per realizzare il suo «raimbowism» era in salita. E che non bastava aver conquistato la libertà perché essa fosse pienamente realizzata. «La verità è che non siamo ancora liberi, abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi, il diritto di non essere oppressi. Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo di una lunga strada che sarà ancora più lunga e difficile, perché la libertà non è solo spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri», scriveva nel Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli, 1994). «Assieme alla libertà vengono le responsabilità». E di questo ha scritto nella seconda parte della sua autobiografia La sfida della libertà (Feltrinelli, ediz. italiana 2018). Ma è un filo rosso che percorre anche le lettere che ora escono in una edizione internazionale, pubblicata da Il Saggiatore in Italia.

La trasformazione della società di cui parlava Marx, per Madiba nasceva prima di tutto da una trasformazione interiore, personale. Nonostante errori e fallimenti, ciò che contraddistingue Mandela è la coerenza fra vita e prassi. La lotta contro le disuguaglianze sociali andava di pari passo con l’affermazione del valore primario della cultura e del diritto all’istruzione. Tutto questo ha fatto di lui uno statista e un politico la cui lezione è tutta da riscoprire oggi. L’agiografia non è il nostro forte e non vogliamo certo farne un santo o un granitico eroe. In questo sfoglio oltre a ripercorrere i punti alti del suo pensiero e della sua prassi politica, cerchiamo di analizzarne anche alcuni limiti. A cominciare da quella fedeltà alle vecchie amicizie che lo portarono ad assegnare posti chiave a persone non competenti né grate, fino all’aver rinunciato una volta diventato presidente a nazionalizzare le imprese perché il Sudafrica era ancora dipendente dagli investimenti stranieri. Per quanto il grande processo di riconciliazione nazionale da lui avviato non abbia sortito tutti gli effetti sperati, è innegabile che Madiba sia riuscito ad evitare che scoppiasse una guerra civile in un Paese massacrato dal razzismo e dalla xenofobia. Mandela è l’uomo che nonostante la violenza subita ha saputo fermare la spirale di violenza. Anche per questo ha ancora molto da insegnarci oggi.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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