Mark Rothko, «questa figura solitaria, nota sino ad alcuni anni or sono solo a pochissimi al di qua dell’Atlantico, appare qui come l’unico esempio di un indirizzo diverso da tutti gli altri...». Così Gillo Dorfles presentava il lavoro dell’artista americano alla Biennale di Venezia del 1958 in un articolo pubblicato su Aut Aut. «La pittura di Rothko costituisce a un tempo un limite...ma anche un inizio: l’inizio di un nuovo tonalismo», il cui compito non è quello di imitare, specchiare o copiare, l’atmosfera alla maniera degli impressionisti, «ma di inventarla, di crearla ex novo». In poche righe Dorfles andava al cuore della ricerca di Rothko raccontando la sua pittura fatta di solo colore, come creazione di immagine e, diremmo oggi, come ricreazione della nascita. Ritroviamo questa piccola perla nella raccolta di scritti, in italiano e in inglese, La mia America, che Skira ha pubblicato a pochi mesi dalla scomparsa del decano della critica d’arte avvenuta il 2 marzo scorso. Nella sua lunghissima vita Gillo Dorfles ha avuto modo di conoscere molti artisti del secolo scorso, non di rado, intuendone per primo il talento, con quello spirito di ricerca e di attenzione al nuovo e alle avanguardie che da sempre lo ha contraddistinto. Così in questo volume curato da Luigi Sansone, accanto a riflessioni sull’estetica, e sul senso della bellezza, sul rapporto fra arte e pubblico, accanto a proposte di metodo e di ricerca, troviamo affascinanti approfondimenti critici sull’opera di artisti che - nei più diversi ambiti - hanno aperto strade nuove. In questa chiave si possono leggere “Il divenire di Wright” dedicato all’architetto della casa sulla cascata e “Le immagini scritte” dedicato a Cy Twombly. Particolarmente interessanti sono le pagine su “architettura e psicologia” in cui Dorfles cerca di cogliere la dimensione profonda coinvolta nella progettazione ma anche nella fruizione degli spazi. «Il senso di profondità, il movimento, la dimensione spaziale entrano in gioco nei nostri (spesso inconsci) apprezzamenti di un ambiente». Caratteristica straordinaria di Gillo Dorfles è che la sua attenzione non rimaneva mai rinchiusa in ambito specialistico e accademico, il suo sguardo spaziava a tutto raggio sull’arte e sulla società. Arrivato in America Dorfles si immerse nella vita newyorkese e non solo, cercando di cogliere l’invisibile di quel grande e contraddittorio Paese. Nacquero in questo modo lettere, articoli, saggi in cui lo studioso triestino raccontava con spirito critico aspetti che riguardano le radici profonde della cultura americana, a cominciare da quelle religiose, che Dorfles stigmatizzava come pervasive. «Penso che il popolo americano si possa considerare come il più religioso e credente di qualsiasi popolo europeo - scriveva - certo più degli italiani». Parlando delle «diverse sette cristiane» diffuse negli Usa ne descriveva il rigore, l’intolleranza, l’ordine. Un cristianesimo, notava Dorfles sulla scorta di Piovene, «che mira alla redenzione e trascura la passione», annullando l’umano.

Mark Rothko, «questa figura solitaria, nota sino ad alcuni anni or sono solo a pochissimi al di qua dell’Atlantico, appare qui come l’unico esempio di un indirizzo diverso da tutti gli altri…». Così Gillo Dorfles presentava il lavoro dell’artista americano alla Biennale di Venezia del 1958 in un articolo pubblicato su Aut Aut. «La pittura di Rothko costituisce a un tempo un limite…ma anche un inizio: l’inizio di un nuovo tonalismo», il cui compito non è quello di imitare, specchiare o copiare, l’atmosfera alla maniera degli impressionisti, «ma di inventarla, di crearla ex novo».

In poche righe Dorfles andava al cuore della ricerca di Rothko raccontando la sua pittura fatta di solo colore, come creazione di immagine e, diremmo oggi, come ricreazione della nascita. Ritroviamo questa piccola perla nella raccolta di scritti, in italiano e in inglese, La mia America, che Skira ha pubblicato a pochi mesi dalla scomparsa del decano della critica d’arte avvenuta il 2 marzo scorso. Nella sua lunghissima vita Gillo Dorfles ha avuto modo di conoscere molti artisti del secolo scorso, non di rado, intuendone per primo il talento, con quello spirito di ricerca e di attenzione al nuovo e alle avanguardie che da sempre lo ha contraddistinto. Così in questo volume curato da Luigi Sansone, accanto a riflessioni sull’estetica, e sul senso della bellezza, sul rapporto fra arte e pubblico, accanto a proposte di metodo e di ricerca, troviamo affascinanti approfondimenti critici sull’opera di artisti che – nei più diversi ambiti – hanno aperto strade nuove. In questa chiave si possono leggere “Il divenire di Wright” dedicato all’architetto della casa sulla cascata e “Le immagini scritte” dedicato a Cy Twombly.

Particolarmente interessanti sono le pagine su “architettura e psicologia” in cui Dorfles cerca di cogliere la dimensione profonda coinvolta nella progettazione ma anche nella fruizione degli spazi. «Il senso di profondità, il movimento, la dimensione spaziale entrano in gioco nei nostri (spesso inconsci) apprezzamenti di un ambiente». Caratteristica straordinaria di Gillo Dorfles è che la sua attenzione non rimaneva mai rinchiusa in ambito specialistico e accademico, il suo sguardo spaziava a tutto raggio sull’arte e sulla società. Arrivato in America Dorfles si immerse nella vita newyorkese e non solo, cercando di cogliere l’invisibile di quel grande e contraddittorio Paese. Nacquero in questo modo lettere, articoli, saggi in cui lo studioso triestino raccontava con spirito critico aspetti che riguardano le radici profonde della cultura americana, a cominciare da quelle religiose, che Dorfles stigmatizzava come pervasive. «Penso che il popolo americano si possa considerare come il più religioso e credente di qualsiasi popolo europeo – scriveva – certo più degli italiani». Parlando delle «diverse sette cristiane» diffuse negli Usa ne descriveva il rigore, l’intolleranza, l’ordine. Un cristianesimo, notava Dorfles sulla scorta di Piovene, «che mira alla redenzione e trascura la passione», annullando l’umano.